Un amico: don Roberto Pennati

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Sono tre anni che ci ha lasciato don Roberto Pennati,
prete del Patronato San Vincenzo, figura di grande rilievo per quello che ha fatto,
per la grandezza d’anima con cui ha affrontato una lunga malattia

Con alcuni amici aveva aperto nel 1979 una delle prime comunità terapeutiche (so che a don Roberto questo nome non è mai piaciuto ma lo scrivo ugualmente) nella bergamasca. La comunità Cascina dell’Agro è rimasta aperta fino a quando la SLA è entrata nel suo corpo ed è iniziato il suo percorso di 25 anni di calvario e di rinascita.

Calvario e rinascita

È proprio così: la malattia non è stata solo un calvario, è diventata l’occasione di rinascita. Un calvario quotidiano ed una rinascita quotidiana.

Alla Cascina dell’Agro don Roberto non era padrone di niente, non faceva sogni in grande, viveva e basta. Ho provato ad immaginare don Roberto dentro i nostri giorni tribolati: come li avrebbe affrontati, che parole avrebbe detto durante la messa domenicale celebrata in casa ogni domenica con amici e parenti.  Prima il Covid, poi il ricominciare dentro un tempo complesso, poi tutta la questione ambientale e per finire la guerra.

Lo immagino così. Alla Cascina dell’Agro c’erano animali, orti, c’era la natura e la creazione. Don Roberto non si sentiva né padrone, né amministratore. Semplicemente entrava in relazione con tutto e con tutti, si prendeva cura del tutto, rimanendo in quel pezzo di orto per delle ore, senza stravolgere niente, ma integrandosi con il tutto.

Oggi diciamo nelle migliori delle ipotesi che siamo amministratori del creato, della terra, ma anche il buon amministratore deve alla fine produrre e allora diventa padrone, perché stravolge tutto. Don Roberto aveva risolto la questione ambientale entrando semplicemente in relazione di comunione con il tutto e con tutti.

La sua sofferenza e quella del mondo

La sua malattia lo aveva portato a considerare la sofferenza del mondo, c’era la sua sofferenza, ma c’era la sofferenza di tutto il mondo e non finiva mai di ringraziare tutti coloro che lo aiutavano e non finiva mai di ricordare tutti coloro che soffrivano.

Dalla sua casa, ormai immobile, e da cui non usciva mai, lui si sentiva un po’ monaco e un po’ pianta. Monaco perché viveva la dimensione del silenzio, della ricerca, dello studio, del lavoro, per quello che la malattia gli permetteva. E un po’ pianta, perché in quella casa sempre aperta, senza cancelli, tutti potevano entrare e trovavano sempre don Roberto pronto all’ascolto e al dialogo.

Penso che ogni avvenimento, il covid, la guerra e tutto quello che il mondo ci sta riservando di questi tempi, lo avrebbe guardato con uno sguardo di tenerezza e di coraggio. Tenerezza di compassione verso tutte le sofferenze e i sofferenti del mondo; coraggio per denunciare, con la sua pacatezza, ma con la sua fermezza, tutte le ingiustizie.

“Dove sei finito, Dio?”

In un mondo così complesso lui si presentava sempre con la sua limpidezza e chiarezza, non barava mai al gioco, né con gli altri né con Dio. Quante domande aveva rivolto a Dio riguardo alla sua malattia! E quante domande e discussioni con gli amici!

Aveva un dono che negli anni ha sviluppato al massimo grado, il culto dell’amicizia, dello sguardo buono verso l’altro, delle parole vere, della vicinanza rispettosa e fraterna. Solo lui avrebbe potuto attraversare questo tempo, rimanendo saldo nella mente e nel cuore, forse nel corpo no. Solo lui avrebbe potuto dialogare con Dio di questi tempi con una preghiera del tipo: dove sei finito Dio, non vedi che stiamo male, vieni in nostro aiuto, non lasciarci soli, non lo pretendo, ma da figlio che può chiedere, io ti invoco. Ricordati di chi soffre e vieni in nostro soccorso.

Non aveva la pretesa di smuovere Dio, ma aveva la pretesa del figlio che invoca il padre e chiede aiuto.

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Sesana

2 Comments

  1. Dolores ha detto:

    I santi della porta accanto….

  2. anna ha detto:

    bellissimo esempio e grazie per questa cronaca di malattia-sofferenza-accettazione e riscatto ! anna presezzo

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