Si parla molto, in questi giorni, dello scontro Roma-Parigi sul problema dei migranti. Da quello che mi sembra di capire, lo scontro non nasce dal “cosa fare” della politica, ma dal “come fare”. Una questione di stile, insomma. Una parte del governo attuale, la Lega soprattutto, non distingue livelli e linguaggi. Salvini fa politica nel governo con modi di dire simili a quelli che si usano nel bar sotto casa. La sua esultanza per la Ocean Viking spedita a Tolone ha irritato i francesi. I quali, ovviamente, avrebbero potuto lasciar perdere. Ma di solito, in questioni di principio e di prestigio, non si lascia perdere. E così è stato.
Il fatto si è che Salvini continua a fare politica con uno stile non politico un po’ perché non è capace di essere davvero un politico, e poi perché la sua inadeguatezza stilistica è il segreto del suo successo. “E’ come noi”, dicono, stupiti, i suoi elettori.
Dovrei votare uno perché è come me, cioè perché non sa fare politica, per dirgli: vai in Parlamento e fai politica
Io, invece, eterno romantico, continuo a pensare che il politico non deve essere come me, perché io di politica non so nulla e, in particolare, non so comportarmi politicamente, non so cosa dire e come dire di fronte a un governo e, soprattutto, a un governo straniero. Non so nulla, perché non sono politico. Ma, allora, se un politico si vanta di essere come me, cioè di non essere capace di fare politica politicamente (avendo ben presente, quindi, tutto quello che comporta il dire e il fare nella “polis”), beh, allora, non ci siamo. Dovrei votare uno perché è come me, cioè perché non sa fare politica, per dirgli: vai in Parlamento e fai politica.
La filosofia tomista, che ho studiato nei bei tempi che furono, mi ha insegnato che, alla fine, tutto dovrebbe essere ricondotto al principio basilare su cui tutto si fonda: il principio di non contraddizione: “l’essere è e il non essere non è”. Ora per la politica secondo Salvini l’essere (politico) non è e il non essere (politico) è. Non ci siamo. Ma proprio non ci siamo.
Berlusconi dice sempre la sua su tutto. L’ha detta anche sulla faccenda immigrati. Bisognava salvarle tutte, “quelle povere persone”. Apprezzabile, ovviamente, questa riedizione del paternalismo berlusconiano.
Anche se, forse suggestionato dalle imitazioni di Crozza, vado spesso a vedere quello che dice Berlusconi non per sapere quello che pensa, ma per verificare se ha capito quello dice. Perché, appunto, spesso si ha la sensazione che le parole di Berlusconi siano in libera uscita: il Cavaliere – questo mi sembra di capire – non dice parole pertinenti a quello che capita, ma dice per dire.
Berlusconi dà l’impressione non di dire qualcosa su quello che avviene, ma usare quello che avviene per dire qualcosa su di sé
E dice per dire perché si dica che lui l’ha detto. Questo, in effetti, è lo scopo di molte delle parole di Berlusconi: che si parli di lui. Dunque, non dire qualcosa su quello che avviene, ma usare quello che avviene per dire qualcosa su Berlusconi.
Post Scriptum. Ma, a ben pensarci, si tratta di uno stile che non è solo berlusconiano. Berlusconi lo incarna meglio, perché dice molto e pare proprio che, qualche volta, dica senza sapere con esattezza quello che dice.
I russi si sono ritirati da Kherson e si vantano perché “nulla del nostro equipaggiamento militare è andato perso”. Dunque: il vanto dei russi è questo: si sono ritirati bene. Ma, penso io, si sono ritirati. Di solito, le guerre si vincono avanzando e non ritirandosi. Se ci si ritira, lo si fa soltanto per preparare una nuova avanzata. Ma è tutto strano in questa guerra.
Con l’enfasi sull’informazione, gli elementi simbolici dominano. Quindi il ritirarsi bene è meglio che avanzare male. Alla fine, quando, forse stremati da spese e perdite di uomini e di mezzi, i due contendenti siederanno al tavolo delle trattative, dovranno fare i conti non solo con il terreno perso e il terreno conquistato, ma anche su che cosa hanno significato, all’opinione mondiale, e quelle perdite e quelle conquiste.
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F. Pizzolato