Il collegamento tra la sfera sociale e quella politica dovrebbe essere assicurato da i partiti, che però – e questo è un punto ormai tragico, più che dolente – hanno progressivamente disertato questo ruolo, assumendo quello opposto e disfunzionale di forze di occupazione della società, impegnate nella riproduzione di una classe politica di aspiranti professionisti della rendita.
Il rapporto dei partiti con la società è gravemente malato: più che un dialogo aperto e un’integrazione, si assiste non di rado al tentativo di appropriazione strumentale e di “targatura” di iniziative civiche; o alla mera cooptazione, alla stregua di uno spot, di figure-simbolo come candidati; o, in modo ancora più perverso, alla disseminazione di germi di polarizzazione, anziché di composizione dei conflitti.
Sono questi solo alcuni dei sintomi della patologia del rapporto tra partiti e partecipazione civica.
I partiti sono in crisi e un malintesa ossessione per il populismo impedisce la denuncia del tradimento
Una malintesa ossessione per il populismo inibisce la denuncia energica di questo tradimento dei partiti, che grava come un’ipoteca sulla qualità della democrazia costituzionale. Partiti privi di radicamento popolare immiseriscono il Parlamento e gli altri organi rappresentativi, impedendo che siano sentiti come istituzioni di credibile rispecchiamento e di promozione del pluralismo sociale. I partiti sono ormai percepiti, a tutti gli effetti, come istituzioni appartenenti alla sfera del potere e, pure tra queste, come le indagini demoscopiche puntualmente confermano, le meno meritevoli di fiducia. A riprova di ciò, i cosiddetti tagli alla politica (tra cui quello del numero dei parlamentari) vengono salutati dai cittadini come sfrondamento di posizioni di rendita, anziché come impoverimento di canali partecipativi.
La democratizzazione dei partiti, mediante una legge (tardivamente) attuativa dell’art. 49 Cost., che magari subordini l’accesso a un finanziamento pubblico all’adozione di un ordinamento interno democratico, e la loro riorganizzazione a livello europeo, al di là delle inconsistenti famiglie politiche di oggi, costituiscono riforme necessarie e purtuttavia costantemente rimosse, che contribuirebbero a restituire ai partiti stessi un ruolo non meramente parassitario.
Non costituiscono un rimedio – ma semmai una resa – alla persistente criticità dello scollegamento tra partecipazione civica e forme istituzionali le proposte volte ad accentuare gli elementi di delega del sistema politico, mediante la selezione popolare di vertici istituzionali monocratici, secondo le linee del presidenzialismo o del cosiddetto “premierato”. Ma non sono un rimedio nemmeno le ipotesi, fugacemente affacciate, di cosiddetta democrazia diretta, telematica.
Il “premierato” e la “democrazia diretta” non risolvono il problema
Entrambe le soluzioni, seppur da punti di partenza opposti, conducono a un medesimo esito, frontalmente contrario ai principi costituzionali, di esaurire il popolo entro un volere singolare, sia esso espresso da un vertice elettivo, sia di scaturigine referendaria.
Più e prima delle puntuali soluzioni istituzionali è il modello di democrazia sotteso a queste proposte di riforma che suscita gravi interrogativi, in quanto volte ad acuire la componente di delega e di investitura del potere e a deprimere la dimensione del pluralismo delle espressioni del popolo e della partecipazione feriale dei cittadini. Si accredita così l’equivoco – dimentico della novità costituzionale – che il volere popolare possa essere unificato entro la volontà singolare di un potere direttamente elettivo, oltretutto monocratico.
Questo effetto di semplificazione mette in ombra il carattere plurale del popolo sovrano e contraddice l’aspirazione costituzionale a una democrazia retta sulla corresponsabilità dei cittadini nella costruzione quotidiana della Repubblica.
A ciò si aggiunga che, come oramai da decenni, si prosegue sulla via della rottura dell’idea di costituzione come patto tra le espressioni politiche plurali della cittadinanza, in favore di soluzioni divisive sin dal metodo delle riforme.
E, “dulcis” in fundo, si persevera diabolicamente nell’idea, inconsistente quanto pericolosa, dell’indifferenza della parte organizzativa della Costituzione rispetto ai principi, retoricamente, ma non senza ipocrisia, reputati sacri e inviolabili.
Come se la parte organizzativa dei poteri non dovesse essere coerente con la direzione di valorizzare l’apporto dei cittadini, nelle loro articolazioni, alla costruzione della res publica. La coerenza esigerebbe di incamminarsi nella direzione di liberare canali di collegamento tra le espressioni del pluralismo sociale e della partecipazione socio-economica e le istituzioni politiche. E, da questa prospettiva, anzitutto le autonomie locali – e in particolare i Comuni continuano a rivestire un ruolo potenzialmente tanto fondamentale, quanto – non per caso – trascurato.