Riporto qui il testo di un lungo dialogo che feci con mons.Bettazzi una quindicina di anni fa.
“Emerito è una forma elegante per non dire pensionato. Però emerito si usa in italiano per dire: è un emerito birbante.”
Così piace presentarsi a monsignor Luigi Bettazzi, certamente uno dei vescovi più noti del nostro paese. “Pensi”, mi dice venendomi incontro, “ho passato più anni da vescovo che da uomo e il fatto, se devo essere sincero, mi spaventa!”.
Bettazzi viene ordinato vescovo ausiliare del cardinal Lercaro, arcivescovo di Bologna, nel lontano 1963 e ha la fortuna di partecipare a tre sessioni del Concilio Vaticano II, di cui Lercaro fu uno dei quattro moderatori e certamente una figura chiave. Le problematiche innovatrici di quella stagione, che lo vedono ancora oggi un tenace sostenitore, diventano centrali in tutta la sua successiva opera pastorale.
Alla fine del Concilio (1966) viene assegnato alla diocesi di Ivrea, dove rimane ininterrottamente fino al 1999, anno del suo “pensionamento”. E’ stato presidente della sezione italiana e internazionale del movimento cattolico Pax Christi e in questa veste ha spesso preso posizioni – contro la guerra e per la pace – che hanno fatto discutere.
Il Concilio, poi vescovo di Ivrea. Il carteggio famoso con Enrico Berlinguer
Nel 1976, il suo carteggio con l’allora Segretario del Partito Comunista Italiana, Enrico Berlinguer, fu motivo di aspre polemiche. Lo aveva ben presente nella lettera aperta che scrisse e che iniziava così: «Onorevole, Le sembrerà forse singolare, tanto più dopo le ripetute dichiarazioni di vescovi italiani, che uno di loro scriva una lettera, sia pure aperta, al Segretario di un partito, come il suo, che professa esplicitamente l’ideologia marxista, evidentemente inconciliabile con la fede cristiana. Eppure mi sembra che anche questa lettera non si discosti dalla comune preoccupazione per un avvenire dell’Italia più cristiano e più umano». Berlinguer rispose in tredici fitte cartelle dattiloscritte e il tutto divenne un libro che appassionò e fece molto discutere.
Insomma, Monsignor Bettazzi ha sempre coniugato la riflessione religiosa e teologale con l’impegno sociale e, all’interno dell’episcopato italiano è stato molte volte una voce libera, a volte fuori dal coro. “Mica tanto”, mi risponde. “In trentadue anni di episcopato ho ricevuto solo tre rimproveri. Il primo perché avevo elogiato il catechismo olandese. Il secondo perché non avevo mandato, come allora si usava, elogi all’uscita dell’Humanae vitae. Ricordo che chiamai in diocesi don Enrico Chiavacci a commentare, ai miei preti, il documento vaticano. In quell’occasione, il moralista fiorentino disse che il testo pontificio andava interpretato dai vescovi e elencò una serie di letture, anche diverse tra loro, di alcuni episcopati. Chi stese le note dell’incontro sul bollettino diocesano forse forzò un poco e quindi mi arrivò una lettera della Segreteria di Stato con alcune osservazioni critiche. Il terzo fu a proposito di una mia introduzione alle omelie dell’abate Franzoni. In questo caso, mi chiamò il cardinal Baggio per ammonirmi. Questi sono gli unici rimproveri che ho ricevuto: forse sono stato un po’ troppo politically-correct! D’altronde quando padre Turoldo e padre Balducci insistevano perché mi buttassi di più, io rispondevo loro: “Non posso, tengo famiglia!”
Da quando è in pensione, monsignor Bettazzi gira, anche oggi che ha ottantasei anni, in lungo e in largo il nostro paese (ma trascorre periodi anche in Africa, in Burundi) a tenere incontri, conferenze e interviste dove lo interpellano come testimone autorevole – e tra i pochi ancora viventi – dell’evento conciliare del Vaticano II (al quale ha dedicato anche l’ultimo suo ultimo libro scritto con il vaticanista RAI Aldo Maria Valli: Difendere il Concilio, San Paolo Edizioni).
Ed è proprio dal Concilio che comincia il nostro dialogo. “Vorrei invitare a riflettere sulla scelta che papa Giovanni XIII fece nell’indire un concilio non “dogmatico”, che non partisse dalla definizione di “dogmi”, di verità in sé, anatematizzando (cioè scomunicando) quanti non le avrebbero accettate, bensì “pastorale”, che partisse dalla sensibilità e dalle attese della gente, non certo per accontentarla automaticamente, ma per farla risalire pian piano verso i principi.
È un metodo più laborioso, ma più efficace. Partire infatti dai principi porta ad escludere fin dall’inizio quanti non concordano totalmente, premunendosi anche contro tutte le conseguenze, non solo quelle inevitabili ma anche quelle eventuali; mentre, partire dalla gente rende più disponibili e più possibilisti, e soprattutto più misericordiosi. Gesù stesso, spesso particolarmente severo con gli scribi e i farisei, custodi della Legge, era invece più disponibile nei confronti dei pubblicani o dei samaritani, i peccatori e gli eretici di allora. Credo che sia un principio pastorale importante oggi più che mai, nell’attenzione ai “segni dei tempi” di un mondo che sta correndo indipendentemente da noi. Questo fa sì che la libertà del cristiano siano un fatto congenito, inevitabile alla sua condizione.”
La tradizione non è fissarsi sul passato, ma trasmettere ciò che è stato ricevuto. Quindi cambiare
Sostiene dunque che sarebbe necessario, come Chiesa, ripensare la tradizione come trasmissione? “Sì, esattamente questo. Abbiamo sempre inteso la tradizione come uno star fermi sul passato, mentre in realtà la parola tradizione deriva dal latino “tradere”, cioè trasmettere. La tradizione è rinnovarsi continuamente. Io se ancora vivo è perché sono ottantasei anni che mi cambio. Se non avessi cambiato sarei in un piccolo recipiente di vetro dentro la formalina. Io sono lo stesso perché sto cambiando continuamente. Così credo che dovrebbe cambiare la Chiesa”.
Oggi quel Concilio – che lei sostiene essere l’avvenimento che ha spalancato le porte e affermato il diritto di cittadinanza alla parola nella chiesa – è messo sotto accusa.
Cosa è stato attuato e cosa non ancora? “Io dico già e non ancora. Se penso alle quattro costituzioni che sono i documenti fondamentali del Concilio, devo dire che molto si è fatto. Per esempio, la Parola di Dio, che prima non era valorizzata oggi è data in mano ai cristiani, e poi la liturgia: prima si assisteva, oggi si partecipa. La Chiesa prima era molto verticistica, oggi ci sono gli aspetti di comunione. Pensi al rapporto con il mondo: prima la Chiesa sembrava contrapporsi al mondo, oggi ne rappresenta il lievito, anche per quelli che non sono cristiani. Queste sono cose che sono state attuate.
Non ancora, nel senso che la Parola di Dio non è ancora l’anima della propria vita come per i protestanti, la liturgia tende ancora un po’ allo spettacolo, e c’è ancora distacco tra clero e laici e la Chiesa pare identificarsi con il clero e di conseguenza stenta ad essere lievito del mondo. Non dimentichi che Bruce Marshall diceva: “i laici nella chiesa hanno tre atteggiamenti fondamentali: in ginocchio, seduti e con le mani in tasca. In ginocchio quando prega il prete (si assiste…), seduti quando parla il prete (si ascolta…), con le mani in tasca quando passano a raccoglier le offerte”. Erano questi i tre atteggiamenti dei laici, tutti di passività. Invece se la Chiesa è Cristo e quelli uniti con Lui, ognuno di noi è Chiesa e ognuno di noi partecipa di Cristo che è profeta, sacerdote e re. In fondo, dal Concilio Vaticano II è partita la riflessione teologica che ha evidenziato che la “comunione” è l’idea centrale e fondamentale, con la logica conseguenza che, essendo la Chiesa comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità per tutti i suoi membri. Condivisione totale che non può esistere senza la comunicazione aperta e il dialogo libero e sincero tra i suoi componenti”.
Lei è stato uomo del dialogo con i lontani. In un suo libro si è definito “vescovo quasi laico”. Cosa è per lei la laicità? “Sono convinto che “laico” non voglia dire “antireligioso”, ma autonomo. Richiama, piuttosto, quell’aspetto umano presente in ciascuno in forza della propria ragione, che può essere anche ispirata dalla Rivelazione. È stato questo il cammino dell’Occidente ispirato dalla Rivelazione ebraico-cristiana. Poi, a partire dall’Illuminismo, si è tentati di renderlo autonomo dai rappresentanti delle Rivelazioni.
Laico, allora, va inteso nel senso di pienamente umano. È quanto siamo arrivati a realizzare all’interno dell’Occidente e che dovremmo riuscire a portare all’interno di altri mondi, ad esempio dell’Islam.”
Quindi il contrario di laico è clericale… “All’interno di una Chiesa che è stata molto clericale ci vuole del tempo per riuscire a liberarsi da questa mentalità. Il grande cammino è proprio quello del laicizzare, di liberarsi dall’eccessivo clericalismo, senza però fare diventare la laicità “laicismo”, cioè rifiuto di tutto quello che anche lontanamente può avere origine dalla Rivelazione.”
All’interno di una Chiesa che è stata molto clericale ci vuole del tempo per riuscire a liberarsi da questa mentalità
Recentemente sul Eluana qualcuno ha detto che la Chiesa ha posto in modo troppo imperioso il suo punto di vista. Cosa ne pensa? “La Chiesa ha richiamato il rispetto della vita in ogni sua dimensione. Del resto, se per tanti anni si è ritenuto di doverla conservare in queste condizioni, perché non continuare a farlo? Credo che l’impegno della Chiesa organizzata debba essere quello di sollecitare il laicato cattolico a prendere determinate posizioni e non perché vengono suggerite dalla gerarchia, ma perché sono frutto di una personale maturazione. Anche la difesa della vita in tutti i suoi momenti dovrebbe essere assunta non con una logica clericale, teocratica, ma fatta in nome della ragione. Laicamente..
Questo presuppone una piena autonomia del laicato cattolico… “Già tanto è stato fatto, ancora c’è da fare. Sottolineo il molto già fatto perché questo dà speranza per il futuro. Ho la fiducia che un cammino di dialogo possa far maturare situazioni di maggiore autonomia consapevole da parte del laicato e di maggiore fiducia e rispetto da parte della gerarchia.”
Eppure Enzo Bianchi ha recentemente scritto che “Chi ha vissuto il post – Concilio ricorda certo le forti tentazioni, cui a volte si è anche ceduto, di contestazione e di contraddizione della comunione ecclesiale, ma ricorda anche il coraggio, la passione, la voglia di esercitare la propria responsabilità nella vita ecclesiale.
A quella stagione, segnata anche dalla conflittualità, è subentrato non un vissuto di comunione più profondo e praticato nel quotidiano, ma un appiattimento, una stanchezza che a volte lascia spazio alla tentazione di non partecipare più al cammino ecclesiale. ”Converrà che oggi siamo in una stagione ecclesiale i canali di comunicazione si sono intasati rendendo impraticabile lo scambio dialogico tra i cristiani e tra i fedeli e l’autorità ecclesiale. Questo dato non dovrebbe rallegrare nessuno, neanche chi come guida è chiamato a svolgere un magistero, perché questa acquiescenza non significa maggiore obbedienza cristiana, né maggior senso della comunione: appare piuttosto come pigrizia spirituale, come mancanza di ricerca, come delusione patita nel tentativo di discernere volti della Chiesa più conformi al Vangelo.
La Chiesa mancherebbe di qualcosa di vitale se l’opinione ecclesiale mancasse. Lo diceva Pio XII
Già nel 1950 Pio XII denunciava la mancanza di opinione pubblica nella Chiesa: “Là dove non appare nessuna manifestazione di opinione pubblica, là dove si constata una sua reale inesistenza (…) occorre vedervi un vizio, un’infermità, una malattia della vita sociale. Così anche in seno alla Chiesa: essa, corpo vivente, mancherebbe di qualcosa di vitale se l’opinione ecclesiale mancasse, e questo sarebbe un difetto che ricadrebbe sui pastori e sui fedeli”. “Lo ripeto: occorre fare in modo che i laici si assumano la responsabilità che nasce dal loro battesimo e che i vescovi la incoraggino. Senza troppe paure. In fondo, la libertà di parola è molto spesso fedeltà alla Parola”.
In questa stagione ecclesiale, quale deve essere, secondo lei, il compito della gerarchia? “Usando una espressione cara a don Tonino credo sia quello di allenare alla “convivialità delle differenze”, a stare insieme anche se si è diversi non per escludersi ma per integrarsi ed arricchirsi insieme. Questo vuol dire impegnarsi ad ascoltare tutti, a stimolare il formarsi di un’opinione pubblica, a ritrovare la “parresia”, quella franchezza e libertà di parola che sono dimensioni costitutive dell’essere cristiano. E poi, me lo lasci dire, credo sia venuto il momento di prendere sul serio una massima di Sant’Agostino. Che dice? “In necessariis unitas , in dubiis libertas, in omnibus caritas e cioè: unità nelle cose fondamentali (non fondamentaliste!), libertà nelle cose opinabili, carità in tutto”.