Ho un amico che qualche anno fa è arrivato a Bergamo dal Veneto. Mi ha raccontato che i primi tempi era sbalordito dalla quantità di persone che affollavano le nostre chiese. Lo stesso amico mi dice di quanto invece abbia visto drasticamente diminuire, nel corso degli ultimi anni, le persone che partecipano alla liturgia domenicale. Non un calo ma un crollo. Un crollo cosi vistoso che il polverone alzato impedisce di vedere fino in fondo gli effetti.
Che bene ha descritto una teologa siciliana, Cettina Militello: “Noi seguitiamo a vivere la nostra vita come se i valori di riferimento fossero gli stessi della societas christiana delle generazioni passate. Seguitiamo ad autocelebrarci, a fare delle nostre liturgie spettacoli. Seguitiamo a crogiolarci in bagni di folla che, pur cospicui, sono statisticamente irrilevanti. Seguitiamo a pensare a improbabili mutazioni di tendenza solo perché da qualche parte c’è un lievissimo incremento delle vocazioni al ministero o alla vita consacrata. Seguitiamo a pensarci in termini di ambienti rassicuranti quali parrocchie, associazioni, movimenti, magari investendo su questi ultimi, vista la loro carica d’efficienza presenzialista.Siamo paghi delle nostre chiese in apparenza, della nostra brava gente il cui livello d’informazione religiosa non oltrepassa l’asilo infantile. Non ci rendiamo conto che rischiamo di restare fuori dal corso della storia.”
Un cambiamento radicale che esige un cammino di conversione che obbliga la Chiesa che è in Italia (e dunque anche la Chiesa che è nella presunta cattolicissima terra bergamasca) a fare i conti con una situazione continuamente vagheggiata e ripetuta ma di cui non siamo ancora pienamente consapevoli: l’essere diventati “minoranza”.
Dopo secoli in cui la fede cristiana era professata e vissuta dalla gran parte della popolazione delle nostre comunità, ci si è accorti che la nostra realtà è “plurale”. Sono cresciuti in maniera esponenziale gli “indifferenti”. Non solo ma si sono affacciati nei nostri territori i “differenti”, uomini e donne che credono in un Dio diverso dal Dio di Gesù Cristo. Insomma, oggi i cristiani – in Italia in generale e a Bergamo in particolare – sono una “parte”, neanche la più consistente, del “tutto”.
C’è gente – diversi preti giovani soprattutto – che si illudono di tornare ai bei tempi passati a furia di incenso, casule e piviali
Rendersene conto veramente (e muoversi pastoralmente di conseguenza) è un’operazione che costa molta fatica. Infatti capita spesso di teorizzarla (molti preti sono bravissimi in questo) ma raramente viene tradotta in scelte conseguenti. Qualcuno – specie alcuni preti giovani – reagiscono a questa situazione nuova e inedita illudendosi che basti tornare ad una riproposizione identitaria e muscolare del dato cristiano. Di fronte alla dura cervice del mondo tanta devozione, molto incenso, una lunga passerella di casule e piviali e ponte levatoio sollevato che ci separi dalla cattiveria del mondo (come se, del mondo, fossimo estranei).
Certo, i segnali possono trarre in inganno i più ingenui tra noi: i battezzati sono ancora la maggioranza, così come (almeno nei nostri paesi) i funerali religiosi, dei matrimoni religiosi è meglio non parlare, la raccolta dell’otto per mille – pur scendendo per la prima volta sotto il miliardo di euro (nel 2024 si è attestata a 990.953.330 euro) – va ancora bene, molti giovani (che non si ritrovano nelle eucarestie domenicali e che sono anni luce lontani dalla vicenda cristiana) animano con passione i CRE estivi nei nostri oratori.
La Chiesa non conta più nella società italiana
Eppure il credito civile della Chiesa cattolica italiana (non molto alto, se si vuole guardare le ricerche circolanti) nasconde la strutturale situazione di debolezza nella quale si trova oggi l’annuncio cristiano. Si coltiva l’illusione di poter “contare” ancora in maniera significativa nella società mentre tutti gli indicatori dimostrano una progressiva perdita della plausibilità della proposta cristiana in ordine alle grandi questioni di senso dell’uomo contemporaneo.
Nel corso degli ultimissimi anni sono stati pubblicati i risultati di alcune ricerche socio-religiose su segmenti della popolazione italiana, a volte generici e a volte specifici, con il fine di saggiarne la dimensione religiosa. Tutte le ricerche evidenziano lo stato di crisi della religiosità degli italiani. Come a dire che a fronte di un seppur sempre più ridotto riconoscimento pubblico della funzione sociale della chiesa cattolica stanno venendo meno le ragioni della speranza dei credenti.
Con lucidità il neocardinale di Torino, Roberto Repole, ha scritto così:
Siamo tornati a essere una Chiesa più simile a quella degli inizi della vicenda cristiana. La grande fatica che oggi dobbiamo affrontare è quella di ripensarci, non essendo più la totalità, forse neppure più la maggioranza. Ritrovando la freschezza degli inizi quando i cristiani erano una minoranza. Sappiamo di trovarci ad un guado, in un passaggio: ciò che abbiamo ereditato, il modo di essere Chiesa dei secoli passati, non esiste più. Si tratta di passare a un altro modo, che però non abbiamo ancora in mente e soprattutto non abbiamo ancora nella carne.
Per farlo, bisogna cominciare. Con coraggio (e fede, che forse è proprio quello che ci manca). Anche solo a sperimentare oggi quello che domani saremo certamente obbligati a fare. Dal colle fino all’ultimo paese della nostra (un tempo) cattolicissima terra bergamasca.