
Il nemico è andato via insieme a bellezza, forme, spazio, colore: è rimasta solo distruzione.
Il cavaliere senza macchia e senza paura – forse l’utopia – è caduto; stringe al pugno, ormai impotente, un’impotente spada spezzata, ma un fiore sboccia tra le dita serrate in un ultimo impeto di riscossa.
Palo Picasso – Guernica, 1937 – olio su tela, cm 349×776
Anche il cavallo è ferito a morte; negli spasimi dell’agonia la zampa si incastra sotto la testa dell’eroe – come in un tentativo di abbraccio – e il suo zoccolo è in primo piano.
Tutto è a pezzi.
A destra una figura a braccia alzate cerca aria e luce da una finestrella.
A sinistra una madre urla lo strazio del suo piccolo spezzato e lo stesso strazio è in un nido violato. Una pianta si insinua, ma le foglie sono lame taglienti.
Un toro sopraggiunge e guarda esterrefatto: con un occhio la scena, con l’altro chi guarda, come a interrogare.
Una figura aerea, leggera – forse uno spirito che viene dall’alto – plana sulla scena reggendo una lucerna e illumina una dolente che non sarà più madre: i suoi capezzoli sono imbullonati.
L’occhio di Dio che vigila sulla storia è stato accecato e sostituito da una lampadina, ma intorno c’è buio. Meccanica e tecnologia hanno sostituito natura, storia e mito.
Picasso sta predisponendo un grande murale per il padiglione della Repubblica spagnola, all’expo di Parigi; ha disegnato una scena di corrida. Gli arriva la notizia del bombardamento “a tappeto” dell’inerme città di Guernica da parte dei nazisti alleati a Franco; i modernissimi aerei “stukas” – in picchiata, con il sibilo lacerante di sirene – mirano a case come a persone in una strage di donne, bambini e vecchi: è la prova generale di quello che presto succederà in Europa con il trionfo delle tecnologie di morte.
Alla notizia Picasso cambia progetto e di getto, in meno di 30 giorni, dipinge Guernica.
Non rappresenta il fatto – aerei, rovine, bombe o polvere – ma lo stupore dei giusti di fronte al frantumarsi della civiltà, alla morte della pietas, della sollecitudine, della cura, dell’amore per la vita.
Quasi tutto è perduto, ma resta, incomprimibile, la libertà di un uomo che inventa un nuovo linguaggio – monocromo, anti eroico, infantile, essenziale, purificato da tutto quanto già fatto e visto – un linguaggio non profanato dalla violenza della storia.
Potremmo oggi dare come titolo a quest’opera il nome di un’altra città?