
Quando padre Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, nel 1972, mi ordinò sacerdote, mi affidò come parrocchia la strada. E non mi mandò ad insegnare qualcosa, ma ad imparare che come chiesa dobbiamo riconoscere il volto di Dio, a volte scomodo, in ogni persona. La gioia del mio sacerdozio, del mio servizio, sta in una doppia fedeltà quotidiana a Dio e alle persone. La strada richiede fedeltà e lealtà nel leggere le storie degli uomini e delle donne in carne e ossa, i loro cambiamenti, per poter rispondere ai loro bisogni e mi ha insegnato che è possibile cercare Dio per incontrare le persone, ma è anche possibile cercare le persone per incontrare Dio, facendosi stupire dal Dio che passa attraverso la vita degli altri, che si nasconde e si fa trovare dove meno pensi, anche in luoghi e volti scomodi e provocanti.
Cosi si presenta don Luigi Ciotti, uno dei preti più famosi del nostro Paese. Il suo nome è legato alla fondazione, nel lontano 1965, sessant’anni fa!, del Gruppo Abele di Torino, una delle prime realtà che allora sostenevano e accompagnavano i giovani in situazione di fatica e di disagio. Don Ciotti è conosciuto anche per il suo impegno in qualità di presidente di Libera, un coordinamento, nato trent’anni fa (“ha compiuto gli anni” il 25 marzo scorso), composto da più di milleseicento associazioni, gruppi, scuole e realtà territoriali di base che si battono contro le mafie e per la legalità. La legge sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l’educazione alla legalità democratica, l’impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di Libera. Libera è riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall’Eurispes tra le eccellenze italiane.
Per queste sue scelte, Don Gigi vive da più di trent’anni sotto scorta: nove uomini che si alternano nel corso della giornata per proteggerlo.
Non ero ancora sacerdote ma il Gruppo Abele esisteva già da qualche anno. Quando venne a ordinarmi, la chiesa era piena dei ragazzi del Gruppo. Io pensavo di dover andare a fare il curato in qualche posto della diocesi, ma Pellegrino si rivolse a quei giovani e spiegò: “Ve lo lascio”. Da quel momento, non ci ha mai dimenticato. Ricordo che, una sera, si presentò ad una nostra riunione. Voleva capire, ascoltare, pronunciarsi e decidere dopo aver conosciuto. Ecco, se dovessi trovare in lui la lezione più importante per i tempi odierni, direi che mi piacerebbe ritrovare quella sua condanna del “peccato del sapere”: è la faciloneria di oggi, il sentenziare su tutto senza conoscere nulla. Lui invece era “padre” anche in questo: che non giudica invano, che non semplifica. E poi l’intreccio tra cielo e terra, tra fedeltà a Dio e alla storia. Lui che aveva scelto di portare una croce pettorale da vescovo di semplice metallo, vendette quelle preziose dei suoi predecessori, assieme agli anelli e ai calici, per finanziare la nostra prima comunità di recupero a Murisengo. Infine, il coraggio della parola. Penso ancora con commozione a quanto scrisse nella “Camminare insieme”, la splendida lettera pastorale – frutto di un lavoro veramente condiviso – indirizzata alla comunità ecclesiale torinese: “E’ dovere della chiesa, di tutta la chiesa, denunciare l’abuso del denaro o del potere. Non dico, anzi non lo credo, che la denuncia basterà ad eliminare questo abuso, questo peccato che lede la giustizia e la carità fraterna. Ma Dio non ci chiede di eliminare dal mondo il peccato. Ci chiede di denunciarlo come l’ha denunciato Cristo.”
Come prete ne ho due: il Vangelo da una parte, la Costituzione e la Carta universale dei diritti umani dall’altra. Testi che su piani diversi affermano la dignità della persona umana, l’impegno per la giustizia e per la ricerca di verità. Sono riferimenti che mi ricordano, con forza, che la persona umana è sempre un fine, non un mezzo. Che è un volto, mai un caso. Che l’unità di misura dei bisogni delle persone è la giustizia. Che è denuncia. Ma anche prossimità, accoglienza, relazione.
Mai come in questo momento, per quello che mi riguarda, vedo crescere la povertà. Assistiamo, in modo progressivo, ad un impoverimento materiale, si allarga la forbice tra chi ha e ci non ha. Tocchiamo con mano, giorno per giorno, l’impoverimento sociale: cresce il penale e diminuisce il sociale, meno progetti e meno risorse per il servizio pubblico. Siamo testimoni di una crisi politica e, prima ancora di una crisi etica. La povertà dei diritti, il venir meno della moralità pubblica. Si sventola la bandiera dell’etica, ma l’etica è innanzitutto responsabilità degli uni verso gli altri. Prendersi cura delle persone deboli, fragili, dare loro un volto e un nome, è il livello più alto dell’etica mentre la nostra è una società della paura che tende a rifiutare la diversità. Infine, è evidente l’impoverimento culturale. Su questo, nel nostro paese, c’è una deriva e una stagnazione che stanno portando ad un impoverimento delle speranze degli individui. Crescono lo spaesamento, l’incertezza, la paura, la voglia di “evadere”. Fa una certa impressione sapere che negli ultimi anni è triplicato, in Italia, l’uso e il consumo di antidepressivi e che il gioco d’azzardo ha visto moltiplicare il suo giro d’affari.
Credo in un Dio che vuole la felicità dell’uomo. Che chiede di batterci per tutto quanto rende la vita più umana e autentica e di lottare contro tutto ciò che la inquina e la rende inautentica. Un Dio che ci invita a guardare la realtà con gli occhi di coloro che fanno più fatica. Credo nella forza delle parole del profeta Isaia: “Non mi terrò in silenzio, finché non sorga come stella la giustizia e la verità come lampada” e nel coraggio della testimonianza di don Peppe Diana, massacrato dalla camorra: “Saliamo sui tetti, per riaffermare la parola, perché bisogna dire, senza oltraggiare e diffamare, quando si sa”. E’ in gioco la qualità della mia fede ma anche la dignità del mio essere cittadino. I continui tagli allo Stato sociale, la limitazione dell’azione della magistratura, la politica dei condoni alimentano le mafie che si crogiolano nella crisi, nella paura, nel disorientamento, nelle compiacenze. Aveva ragione Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, quando diceva a Giorgio Bocca, in un’intervista a ‘La Repubblica‘: “Lo Stato da’ come diritto ciò che le mafie danno come favore.
Hai ragione. Un po’ dappertutto si respira un clima pesante, un’aggressività latente. Bastano piccoli incidenti a scatenarla. Dobbiamo interrogarci su cosa genera questo clima. Sui modelli culturali dei nostri tempi, sull’ individualismo esasperato, sulla corsa al successo, alla ricchezza, al potere. Dietro aggressività e illegalità diffuse c’ è anche l’idea che l’affermazione dei propri interessi giustifichi ogni mezzo, anche la violazione delle regole, l’appropriazione e l’abuso di ciò che è pubblico. Questa deriva non può essere fermata solo con misure di “ordine pubblico”. Bisogna impegnarsi a monte, ridurre le disuguaglianze, ri-educarci tutti alla reciprocità, alla corresponsabilità, al senso di comunità. Bisogna scommettere sulle politiche sociali e culturali. Riaffermare il protagonismo del “noi”, il realizzarsi non contro ma insieme agli altri, nel segno dei diritti e doveri della democrazia
Di onestà, di corresponsabilità, di giustizia sociale. Di una politica che scelga la comunità, non l’immunità. E c’è bisogno di speranza. Una speranza che non è attesa passiva di un futuro migliore, ma costruzione del futuro attraverso l’impegno quotidiano di ciascuno di noi. “A che serve essere vivi, se non si ha il coraggio di lottare?” scriveva Pippo Fava, il giornalista siciliano ucciso da Cosa Nostra il 5 gennaio 1984. E poi abbiamo bisogno di sconfiggere il peccato della mancanza di profondità. C’è troppo sapere di seconda mano. Dobbiamo non essere persone superficiali ma capaci di scelte. Vedi, io non parlo più di educazione alla legalità. È una scelta precisa: di legalità ne parlano tutti, basta vedere le televisioni, i giornali… ne parlano anche quelli che la calpestano tutti i giorni. Preferisco parlare di educarci alla responsabilità. E la responsabilità non la si predica: va vissuta e testimoniata nei gesti e nei comportamenti.
Credo che la Chiesa e i cristiani siano chiamati a fare la loro parte, saldando la testimonianza cristiana con la responsabilità civile. Significa rifiutare silenzi, forme di compromesso, complicità. A me piace la Chiesa dei don Puglisi, la Chiesa che interferisce, che interviene per illuminare le coscienze, per denunciare gli affari criminali e le ingiustizie sociali. Che ha fame del cielo e insieme non è lontana mai dalla terra, dagli impegni e dalle responsabilità. Perché non basta dire “Signore, Signore”, ma bisogna sapersi misurare con la quotidianità da costruire. Che testimonia, nelle parole e nei fatti, l’assoluta incompatibilità del Vangelo con il crimine e la violenza. Che è capace di farsi coscienza critica ed essere testimone del senso vero della giustizia. Due cose il cristiano non può fare: obbedire all’ingiustizia, alla sopraffazione, alla violenza, e diventare complici direttamente o per indifferenza, rassegnazione, poco coraggio. Quando giro per l’Italia e incontro giovani nelle parrocchie e nei gruppi amo spesso ricordare loro le parole che il giudice Rosario Livatino, assassinato dalla mafia il 21 settembre del 1990, scrisse sul suo diario: ”Alla fine non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”. Lo aveva capito il mio amico don Tonino Bello che, da Vescovo, aveva aperto le porte dell’Episcopio per ospitare persone in difficoltà. Un giorno, alzando il tono della voce, disse ai suoi preti e alla sua chiesa: ”i cristiani non possono dimenticare che la Parola non si annuncia con le parole soltanto, si annuncia con la vita, con i gesti, con i fatti”. Solo così, la Chiesa e i cristiani saranno veramente credibili.
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Cavallini