Elegia del viaggio (o Elegia della traversata) è il titolo del film (del 2001) di Aleksandr Sokurov, da cui è tratto questo fotogramma.
Gocce d’acqua bagnano la fronte e il viso serio del bambino, nella severa cerimonia battesimale posta quasi all’inizio del racconto.
Lungo tutto il film le immagini, evocative e intense, sono accompagnate dalla voce sussurrata e dalle ripetute domande del narratore-viaggiatore.
Non solo il rito iniziale, ma tutti i movimenti, i gesti e i passi, sono lenti e cauti, come in una liturgia in cui ogni atteggiamento ha qualcosa di sacro, da evocare e riconoscere, perché il suo significato profondo non vada perduto. Perché si palesi anziché perdersi, come sembra temere il narratore: “…ma ho così poco tempo per vedere! Quanto scorre veloce la mia vita, non posso attardarmi…”, “Cosa ne sa questo bambino del sacrificio? A cosa pensano tutti? Mio Dio, aiutami a capire…”.
Lo svolgersi della traversata è un chiaro rimando: il viaggio diventa memoria e sogno, vengono lasciati luoghi e volti familiari, ormai irriconoscibili, quasi cancellati da un sipario che li offusca, si attraversano una frontiera e un posto di controllo, bisogna poi solcare un mare immenso tra onde nere e minacciose, con la solitudine nel cuore, e infine l’approdo, in una terra sconosciuta.
Ogni tanto osserviamo dall’alto, col viaggiatore, le luci lontane e la vita degli uomini che si affannano; altre volte accadono incontri luminosi, come quello con un giovane uomo, in un caffè ai margini della strada: “Ho cominciato a capire che i miei spostamenti avevano un senso. Non ero qui per caso. Dio solo sa come, quest’uomo mi ha notato. Sorride… molto bene; un uomo buono”.
E il giovane – che ci ricorda i folli e i mistici della letteratura russa – inizia il suo racconto: “Sono riconoscente a Dio dell’umiltà che ho imparato nella vita…”.
Il viaggio, o la traversata, inizia e si compie, per i cristiani, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ma ci pare che non basti tutta la vita per conoscere davvero colui con cui abbiamo viaggiato.
Tante volte, nello smarrimento, vorremmo vedere da vicino, essere rassicurati e garantiti, ma Dio, come ha fatto con Mosè, ci nasconde il suo volto, e i nostri occhi si devono chiudere e le ginocchia piegare, accogliendo il compito del viaggio sconosciuto, insieme ai nostri fratelli.
Soltanto nel cammino, cercando e decidendo di me, posso dire il Dio della mia vita, perché l’umano è il modo in cui Dio dice e rivela la sua promessa.
Anche noi infatti abbiamo incontrato un compagno di viaggio e di destino, entrato nel nostro tempo e nella storia, che ha tradotto compiutamente, in una vita vissuta sulla terra, quell’invito che viene dal cielo e che stava nella voce nascosta ascoltata da Mosè nel roveto. A quella voce corrisponde il volto dell’uomo.
In quella via, in quello spirito che ci è stato lasciato e si è depositato per sempre nel cuore, tracciamo il nostro viaggio, col desiderio di trasformarlo in parabola e gesto fraterno.
All’inizio, nel battesimo, siamo seppelliti con Cristo nella via del vangelo, lungo la quale cerchiamo e diciamo il nome di chi ci accompagna. Come il narratore-pellegrino arrivato infine alla meta: “chi mi ha condotto qui?… ero solo ma qualcuno mi guidava…”.