Parroci nuovi. Metodo antico. E discutibile

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Il prete, persona “a disposizione” della Chiesa. Quasi sempre.

Una nuova lenzuolata di preti, nuovi parroci, nuovi collaboratori, nuovi. Questo evento offre l’occasione di parlare e dei preti e del modo di fare il prete.

I molti preti che si spendono, in silenzio e generosamente, si sa che non fanno notizia. Fanno invece notizia i parroci e i preti che alcuni indicatori dicono non essere al posto giusto. Siccome non si devono fare nomi, si pensa che non ci siano nomi. Invece i nomi ci sono. Soltanto non si devono dire. E diverse comunità sono in sofferenza.

Chiaramente, i superiori faticano a trovare le persone giuste per il posto giusto. Si sa che alcuni preti avanzano loro richieste e non tengono conto di richieste che vengono dai superiori.

Detto tutto questo, la sensazione è che il sistema così come è scricchiola. In teoria, i preti devono “essere a disposizione”. E, proprio perché a disposizione, lo spostamento di un prete da una parrocchia all’altra, avviene non per rispondere alle esigenze del prete, ma a quelle delle parrocchie, quella di partenza e quella di arrivo. Così dovrebbe essere. Così è spesso. E gli interessati accettano, il più delle volte, con esemplare spirito di servizio la fatica di spostarsi, di adattarsi, di ricominciare tutto da capo.

Ma così non è sempre. Qualche volta avviene che il tal prete è inviato nella tal parrocchia al termine di un faticoso botta e risposta con la curia. La tal parrocchia, alla fine, deve ricevere quel tal prete non come il miglior bene per lei, ma come il minor male. Cara parrocchia, in mancanza di meglio, prenditi questo. Caro reverendo dopo tutte le fatiche che ci hai procurato, prenditi questa. E accontentati. E vissero felici e contenti, la parrocchia e il parroco. Felici e contenti? Non sempre e non precisamente.

Il modo di “destinare” i preti e una certa idea di Chiesa. Che non è conciliare

Il sistema di designazione dei preti non riguarda solo i preti. Dietro questa metodologia, esiste e resiste tenacemente, un’idea di Chiesa.

Al centro di questa idea di Chiesa c’è, precisa e sicura un’altra idea. Questa: la parrocchia dipende in maniera decisiva dal prete. Il prete è tutto. Non c’è comunità senza il prete. E ci sono a portata di mano, molte dotte considerazioni sulla teologia che viene dalla consacrazione sacerdotale del prete, sulla Chiesa “assemblea” radunata, sui concetti impegnativi di servizio, e poi le immagini bibliche del popolo di Dio, dell’ovile, del pastore (con la “p” minuscola. Non sempre però si riflette sul rapporto tra pastore con la “p” minuscola e il Pastore con la “P” maiuscola. Ma pazienza). Eccetera eccetera.

Tutte cose belle e cose in fondo vere. Ma, messe insieme così bene, fanno nascere il sospetto che siano un po’ troppo funzionali a quella precisa idea di Chiesa.

Arriva il nuovo parroco e la parrocchia viene rifondata

Questa idea di Chiesa, che la metodologia di designazione dei preti fa venire chiaramente alla luce, viene confermata dal modo di fare che alcuni di quei preti mettono in atto, una volta arrivati nella parrocchia “affidata alle loro cure”, come si usa dire (ho detto “alcuni preti” e ribadisco. Non tutti, solo alcuni, ma alcuni sicuramente sì).

Sono più di uno i casi di parrocchie dove l’arrivo del nuovo parroco significa la rivoluzione: tutto quello che c’era salta e tutto quello che c’è è – deve essere – nuovo. “Faccio nuove tutte le cose”, sembra essere questa frase dell’Apocalisse il motto che detta legge in situazioni di questo genere (a proposito di Apocalisse, quella frase, nel libro sacro, è Dio che la pronuncia e quindi nasce il sospetto che i preti citati, facendo come il Dio dell’Apocalisse, anche loro sono un po’ come lui o per lo meno lo pensano).

Esiste una letteratura sotterranea che narra di diverse di queste silenziose rivoluzioni clericali.

Primo problema. Il parroco dice “il parroco sono io”

Le quali situazioni pongono almeno due ordini di problemi. Il primo riguarda loro, i parroci. Non sempre si capisce, infatti, perché si debba cambiare tutto. Anche perché la teologia che fonda la missione del parroco dice che il parroco è al servizio della comunità non la comunità al servizio del parroco. È il parroco che deve adattarsi alla comunità, non viceversa. Quindi, mi pare, proprio perché il parroco deve servire la parrocchia deve partire dal rispetto per la parrocchia, di quello che la parrocchia è già. E’ poco evangelico, oltre che poco ragionevole, costringere la parrocchia a una doccia scozzese di passare da uno stile a un altro e dall’oggi al domani. E questo, non perché è cambiata la parrocchia, appunto, ma semplicemente perché è cambiato il parroco.

Ovvio che un dato simile pone, ancora e sempre, il vecchio, vecchissimo problema del clericalismo. Il prete – quel tipo di prete, lo ripeto – fa tutto, decide tutto: vedi sopra. “Io sono il parroco”, si sente ripetere spesso. Frase così perentoria e così apodittica che non sarebbe eccessivo tradurre così: “Io sono la parrocchia”. Con tanti saluti alla Chiesa comunità, alla Chiesa popolo di Dio, alla pari dignità di tutti i battezzati. Tutti i battezzati sono uguali ma, parafrasando Orwell, si deve dire che ci sono alcuni battezzati che sono più uguali degli altri.

Secondo problema. I superiori dicono “Si fa la guerra con i soldati che si hanno”

Il secondo problema riguarda i superiori. Sono sicuro che se facessi presenti le obiezioni di cui sopra al vicario generale o al vescovo, la risposta sarebbe: “Prova tu a trovare il parroco giusto per tutte le parrocchie”. Oppure, versione più brillante: “Si fa la guerra con i soldati che si hanno”. Già. La difficoltà a trovare le soluzioni giuste giustifica tutte le scelte, anche quelle discutibili. E soprattutto giustifica il metodo. Le parrocchie si vedono piovere dal Colle i loro parroci e non possono dire nulla. Detto in altri termini: i metodi di designazione dei parroci sono tuttora straordinariamente “verticistici”. Tutto si decide tra pochi. Di fatto: vicario generale e vescovo.

Esiste il “consiglio episcopale”, il ristretto gruppo degli immediati collaboratori del vescovo: in tutto sette persone – che si riunisce normalmente tutte le settimane. Ma anche il consiglio episcopale non viene coinvolto nelle scelte dei parroci. Perché è difficile discutere su tutto. Perché è impossibile. Pochissime persone decidono. Le pochissime persone non possono ascoltare tutti. Quindi non si ascolta nessuno. Il clericalismo di vertice si autogiustifica.

Ma forse mi sto sbagliando. Spero, anzi di sbagliarmi. Perché, se così fosse la cosa sarebbe inquietante. Nella Chiesa, più si sale nella gerarchia, meno comunità si è.

Ma esiste, potrebbe esistere, o si potrebbe almeno immaginare, un metodo diverso, una qualche alternativa. Ne parliamo nella prossima puntata.

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1 Comment

  1. fiorenza cattaneo ha detto:

    Secondo noi laici sono tante le riflessioni che si potrebbero mettere in atto.i preti e iloro modo di fare i preti, i preti e una certa idea di chiesa. Ma quale chiesa? L’ascolto di laici seriamente e culturalmente impegnati nelle parrocchie. Un confronto con i vertici… perché no. Come mai alcune parrocchie affondano… come mai tra un parroco che va e quello che arriva, nella comunità succede di tutto.? E sopratutto al di là del singolo prete o della comunità cristiana, quali sono per tutti le linee pastorali di una diocesi, le linee per la catechesi degli adulti delle famiglie dei ragazzi… ognuno se ne va per conto suo…e noi sempre qui ad aspettare se siamo fortunati o no. Sappiamo e ne abbiamo la prova che ci sono preti che si spendono in silenzio e con grande generosità. E di loro ne siamo fieri. Anche perché i risultati si vedono. Per questo li ringraziamo.

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