Il parroco ha raggiunto i 9 anni canonici e quindi, stando alla normativa, sarebbe pronto per andarsene. Aleggiano apprensione e tristezza, dove il parroco è una figura che ha saputo raccogliere intorno a sé la comunità, con comprensione, empatia, vicinanza e grande acume nel cogliere i punti di forza e le debolezze.
Regna invece un’aspettativa di un cambio “favorevole”, dove negli anni si sono creati malumori, scontri, poca attenzione alle persone e soprattutto gestioni di tipo padronale e assolutistico da parte del sacerdote.
Nelle comunità dove il Parroco è stato cambiato da poco, si vivono sonni tranquilli perché tutto fila liscio. Ma dove non tutto fila liscio si incomincia a domandarsi se la Curia non potrebbe tornare sulle sue decisioni.
I curati lasciano di solito il loro cuore negli oratori, dove sono stati. Anche loro non sempre hanno vita facile e qualche volta devono lottare per arruolare volontari e catechisti. A proposito di catechisti. Talvolta i curati devono avere a che fare con collaboratori che non cambierebbero nemmeno una virgola di quello che hanno sempre fatto. Oppure devono fare i conti con altri collaboratori che, invece, attuano innovazioni bizzarre. Hanno dovuto rifare campi di calcio, di pallacanestro, di pallavolo. Poi ci sono i debiti da pagare e si vedono costretti a inventare iniziative fantasiose per racimolare soldi.
Quando se ne vanno, lasciano sempre un po’ di vuoto, ma sarà forse perché l’ambiente è… o dovrebbe essere più giovane (in fondo i ragazzi cambiano più spesso degli adulti), chi arriva è sempre accolto con più entusiasmo che freddezza.
Naturalmente anche le comunità non sono tutte uguali. Ci sono quelle più coese, abituate a stili sinodali e liturgie curate, dove i laici sono stati valorizzati e dove la partecipazione, attraverso consigli pastorali o consigli degli affari economici, permette di arrivare a scelte comuni e condivise. Ma ce ne sono altre, invece, che non sono ancora entrate profondamente nel dopo Concilio, e camminano con fatica. I cambiamenti della Chiesa (che già di suo ha un’andatura da tartaruga centenaria) non si vedono. I laici, da parte loro, per rassegnazione o per convenienza, lasciano tutto in mano al sacerdote di turno.
Scherzando mi viene da pensare che forse un semestre di prova, come succede per tutti i comuni lavoratori, forse sarebbe utile, sia per il prete sia per la comunità che lo accoglie. Ci dicono che i preti godono di una particolare illuminazione dello Spirito Santo. Ci crediamo. Ma, a volte, si deve prendere atto che certi preti hanno in dotazione una personalità così forte, così sicura di sé, tale da far nascere in noi laici la sensazione che loro, i preti, non hanno bisogno di consigli che vengono dall’alto. Le loro certezze bastano. E non so se questo si può giustificare con la difficoltà, reale, certamente, di dover mettere insieme persone, molte e diverse fra di loro, per fare una sola comunità. Fare questo è difficile. Usare quel metodo per farlo è discutibile.
Un’altra cosa mi è toccato osservare sotto il sole, direbbe Qoelet. Torniamo alla situazione che molte comunità devono vivere in queste settimane. Arriva il nuovo parroco. Arriva e che ti succede? Tutto quello che si è fatto fino ad allora non va. Tutto è sballato o sbagliato, tutto va ribaltato. Mi domando, da inguaribile ingenua: Non sarebbe meglio, prima, conoscere bene le cose? Non sarebbe meglio che il parroco si ricordasse che anche lui è “ospite” di passaggio e non padrone di casa? In fondo le comunità rimangono. Sono i preti che poi, a un certo punto, se ne vanno.
E, ancora da inguaribile ingenua mi chiedo: chi decide le destinazioni, non dovrebbe aver bene presente il chi e il dove delle destinazioni? I preti diminuiscono. Vero. Ma questo potrebbe diventare un rischio: il rischio di decidere senza tener bene presenti non tanto le necessità dei preti, ma piuttosto quelle delle parrocchie.
Ho letto, per caso, in questi giorni, alcune frasi interessanti, scritte dal vice direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di una città che non è proprio alle porte di Bergamo: Catania. Mi sembra che quello che dice e il come lo dice sia davvero interessante.
La grande tentazione che percorre anche il cuore più generoso di un parroco è quello di stare davanti alla sua comunità come solitario Mosè davanti a Dio. In questo modo egli non solo si carica di un peso eccessivo ma, soprattutto, perde la consapevolezza che egli stesso è compagno di viaggio insieme alla sua comunità e non il leader… Una pastorale integrale è una pastorale caleidoscopica eppure unitaria ma non uniforme e uniformante, dove il Consiglio pastorale, ove convergono tutti, può diventare il luogo del discernimento e non il luogo in cui il Generalissimo parroco dice quello che ha deciso e si aspetta che i colonnelli facciano in modo che la truppa obbedisca”.
Il Papa stesso mi sembra abbia parlato ai suoi preti, ricordando a tutti che per lavorare bene nella vigna del Signore, occorre abbandonare i protagonismi e armarsi di buona volontà, ascolto, prossimità, oltre che di competenza, preparazione, saggezza, rispetto.
Noi Popolo di Dio, dobbiamo essere capaci di sentire tutto il nostro valore, di aiutare la chiesa nei momenti di difficoltà. Ma dobbiamo anche far sentire la nostra voce quando la Chiesa si disinteressa di noi. Dobbiamo avere l’umiltà e la capacità di ascoltare la voce dei nostri pastori ma anche il coraggio della correzione fraterna. La quale è veramente fraterna se non funziona a senso unico.
Che strani pensieri mi vengono. Per fortuna, al di sopra di tutte le nostre paturnie, c’è Lui, che resta il nostro punto fisso, Lui, il padrone della vigna, che legge tutti nostri pensieri e anche questi, con la misericordia di cui lui solo è capace.