“Non è roba per te”. Confessioni di un prete “inadatto”

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“Non è roba per te”. Confessioni di un prete “inadatto”. Sono frasi che mi sono venute in mente alcuni giorni fa, durante il ritiro dei sacerdoti presso la parrocchia di Villongo San Filastro. Davanti all’Eucarestia. Medito sulle parole di Geremia e sul testo della preghiera di ordinazione sacerdotale che don Doriano ha offerto durante la sua bella meditazione. Poi, dopo aver fissato quel pezzo di pane dove c’è Tutto, mi siedo e prendo il mio libro. È il libro che mi sta accompagnando in questi giorni, che mi scava dentro e mi mette in discussione.

Il lusso (inutile) per un prete: leggere

Sì, faccio parte di quei preti che si permettono il lusso di leggere un’oretta al giorno, a volte due… altre tre. Qualche confratello, caritatevolmente, dirà che è tempo sprecato, sottratto alla gente, che sarebbe da dare ai poveri. Io credo, invece, forse sbagliando, che sia un modo con il quale io alla gente voglio bene. Certo, conta la relazione, ma non ogni relazione è pastorale e non ogni parlare edifica la comunità. A me parlare spesso costa fatica. Preferisco ascoltare e prendere parola solo se ho davvero qualcosa da dire.

Il libro che ho tra le mani è “DOV’ERI? Vivere non è solo un diritto”, di don Alessandro Deho’, amico, prete e uomo tutto d’un pezzo. Nelle nostre comunità, in queste settimane, si stanno ripensando i cammini catechistici. Dopo la fase faticosa di due anni di pandemia, sperando di non ricaderci in autunno, si vorrebbe respirare normalità. Ho fatto qualche tentativo, lo scorso anno… Ho azzardato una sperimentazione catechistica in una delle mie comunità.. Ho osato. Forse ho osato troppo. Ci avevo lavorato sodo… peccato.

Il solito mantra: “Si è sempre fatto così” e il diritto di essere un sognatore

Non fa male il fatto che si “torni indietro”: ci mancherebbe! Il ritmo della comunità va rispettato e si deve camminare allo stesso passo. Fa più male il fatto che tutto ciò che non rientra nel “si è sempre fatto così” venga squalificato come insensato, addirittura dannoso, come se i preti che per due anni ci hanno lavorato avessero avuto come scopo quello di far perdere la fede o condannare al non senso il cammino catechistico di intere generazioni di bambini.

Chissà, forse, chi ha sostenuto che don Alberto non è idoneo a gestire la catechesi, che “non è il suo”, ha ragione. Certo che ha ragione. Io sono un povero sognatore. Sogno, come scrive don Alessandro, comunità che siano

spazio di fragilità perdonata in forza delle fragilità di ognuno, spazio di accompagnamento e non di indottrinamento uniformante: se riuscissimo a fare questo, smetteremmo di voler decidere a priori come dovrebbe essere imbastita l’iniziazione cristiana dei ragazzi,  e inizieremmo a pensare a luoghi in cui favorire il racconto personale di ciascun ragazzo, di ciascuna famiglia, senza voler uniformare a un modello prestabilito, luoghi di accompagnamento che non prevedano nessun sacramento forzato, ma lascino spazio allo stupore di chi riconosce in ogni storia amata la fantasia dello Spirito.

È proprio vero quanto scrive l’amico e confratello: siamo figli del nostro tempo che impone di produrre e, in questo modo, finiamo per ubriacarci di proposte, riunioni e calendari pieni, per il semplice fatto che abbiamo paura, paura di non contare più.

Anni di catechesi hanno prodotto troppi giudici inflessibili

Peraltro, diciamolo francamente, se anni di catechesi settimanale o addirittura di studi teologici producono gente giudicante che sentenzia sull’idoneità o meno di un fratello o una sorella a svolgere il compito di catechista o di coordinatore della catechesi, mi sembra che di grandi passi nelle fede, nella speranza e nella carità cristiana non ne abbiamo fatti.

Sì, forse fare il catechista, il curato o il parroco oggi “non è il mio”. Faccio ciò che posso, mettendocela tutta. Sono felicissimo e lo sarò fino a quando avrò una chiesetta dove fissare lo sguardo su quel pezzo di pane dove c’è la Divina Presenza.

E allora poco importa se in futuro farò il cappellano di un santuario o di un ospedale: spero di essere in una Chiesa nella quale l’identità di ciascuno, “la nostra originalità radicale, non solo viene accolta, ma anche cercata e valorizzata perché mostra una sfumatura nuova del volto di Dio”.

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