Sono tornata, come ogni estate, alla mia grande quercia che campeggia sola in mezzo alla terra verde piena di sole, e che i temporali non riescono a scalfire.
Sono affezionata a quella quercia, la guardo, la fotografo ogni ora del giorno, e mi commuovo.
È alta, solenne, forte, austera, e insieme compassionevole, amica, quando generosamente posa la sua ombra su ogni creatura.
Di fronte a lei mi sento impotente, afferrata da una Presenza che non ha limiti.
Ai suoi piedi processioni di formiche che avanti e indietro affannosamente attraversano le loro autostrade ammassando briciole: redivivi Giobbe e compagni, che con capo eretto contestano Dio per chiedergli conto del suo operato. Piccoli esseri supponenti.
Più lontano pochi arbusti rinsecchiti in inverno per rinverdire ogni primavera, roveti ardenti di un amore che non sa morire.
Intanto il sole brilla su fiori selvatici senza nome, così umili, così inutili,“i gigli dei campi che neppure Salomone con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”.
A lato agili cipressi, adolescenti liberi e puri, non ancora provati dalle fatiche della vita, e dalle proprie dissonanze, accompagnano un composto viale.
Qua e là briciole di bellezza.
Frammenti di infinito.
È terra santa.
Dalla chiesa vicina mi raggiungono voci sommesse di un canto gregoriano.
C’è un “di più” da cui mi sento rapita.
Un “di più” gratuito che mi abita senza bisogno di giustificazioni.