
Nella cooperativa che dava lavoro ai semi-liberi incontro F. durante uno degli incontri nei quali periodicamente si riflette insieme sull’esperienza di lavoro e sulle prospettive riparative e di ricostruzione della propria biografia. Ci vediamo da diversi mesi, mi colpisce la sua sobrietà, la sua franchezza. Ha grandi occhi azzurri seri, pacati. Ha un figlio di sette anni: e lui è al sesto anno di detenzione. La moglie ha caparbiamente tenuto le relazioni con lui e, per quanto possibile, ha coltivato quella tra lui ed il figlio. Ha cresciuto bene il piccolo, “ha già compiuto più di un miracolo”, mi ha detto piano F.
Ha un figlio di sette anni. La moglie ha caparbiamente tenuto le relazioni con lui
Nel tempo il bambino, D., gli portava i disegni e i compiti. E domande su quel posto, sulla sua lontananza. Avevano deciso subito di dire la verità, quella chiesta e quella che poteva accogliere un bambino. Lui faceva lavori, leggeva storie nelle ore del colloquio con D.. Tra i miracoli di lei c’era il prendere sempre decisioni tutti e tre insieme nella sala azzurra.
La mamma aveva detto al suo piccolo: “Si può sbagliare, anche con intenzioni non cattive. Allora si viene puniti perché così si ripara”. F. collaborava con la redazione del mensile del carcere, con il laboratorio di giochi di legno per bambini disabili.
Passano alcuni mesi e diversi incontri. Fine pena è vicino, ormai. “Ho un regalo per loro: me ne andrò lontano. Il mio tesoro non dovrà vergognarsi o dire bugie sul papà ai suoi compagni, e sua madre potrà rifiatare, sarà infine libera. Anche le nostre mogli vivono la prigione, e sperano la fuga”. Così mi aveva detto l’ultima volta.
Oggi F. sta zitto durante il gruppo, con gli occhi assorti. Quando mi saluta mi guarda dritto: “Torno a casa, devo farlo. Devo dire che ho sbagliato e che sono capace di riprendere il filo, che ho lavorato su di me, anche per sostenere la durezza che chiederà. Devo dire che li amo tanto, che si può amare anche se si è compiuto un reato. Che si può ricominciare.”
Mi lascia in mano un momento una cartolina: è del figlio, per la Festa del papà, “ti aspetto, papà”.
In seconda una maestra, forse un po’ imprudente, aveva chiesto di portare una immagine sul lavoro dei padri. Tutta rossa una piccola aveva detto: “ma il papà di D. è in prigione…” Campanella a togliere dall’imbarazzo.
Il giorno dopo D. aveva portato una foto del laboratorio di falegnameria con il papà e attorno bambini in carrozzella con i giochi di legno. E il loro biglietto di ringraziamento.
I figli dell’uomo possono nascere più volte
Durante un incontro con un don di frontiera, animatore di una cooperativa di lavoro, si era usata l’espressione “figlio dell’uomo”. Aveva chiesto cosa intendeva ed aveva ricevuto una risposta imprevista: i figli dell’uomo possono nascere più volte.
Di nuovo ci si trova “figli dell’uomo”, non già determinati ma ancora nella possibilità di vedere e di essere altrimenti: di lasciar andare la colpa, di perdonare, di riseminare colpa e delitto nel presente dei giorni. In ebraico e in aramaico, “figlio dell’uomo” significa “essere umano”. Grazie ad altri siamo nati, grazie ad altri possiamo tornare ad uscire da noi stessi, fuori dall’universo chiuso della colpevolizzazione e della perfezione, del merito e della colpa.
Certo, F. si era trovato in un punto di decisione e di ritrovamento da solo. Non perché si possa, da soli, salvarsi e tornare a nascere. L’attesa del figlio e la forza generativa di sua moglie avevano tracciato la via: ma solo con le sue forze doveva entrarci.
La colpa era barriera:
il senso di colpa è il più profondo appello di sé a un al di là da sé, una forza vitale che produce il tempo e insieme lo domina”.[1]
“Produce” il tempo quando conduce fuori da ciò che si è già dato, a trovare nuovo senso e nuovo inizio. Può provocare, un ritorno su di sé e un nuovo giocarsi, una capacità di futuro che risignifica il lavorio presente e fa riprendere e riaprire il passato. Ma va “coltivato” con più mani e più parole, va letto e impiegato in attraversamenti e narrazioni. Può sia distruggere che divenire fonte di vita rinnovata.
“Ho faticato a sperarci, a crederci”
Su quel confine incerto, la sfida, se è assunta, può trasformare l’”angoscia essenziale” in “desiderio esistenziale”, il desiderio di superamento può trovare sorgente nei momenti in sala azzurra, in tanti sogni, in scelte fatte insieme. Si camminerà in salita e reggendo la vertigine, provando una “confessione etica”.[2]
“Ho faticato a sperarci, a crederci”, F. ha dovuto maturare una certa lucidità, e una certa pietà. Sentire il proprio valore, sentire le radici.[3] “Ti aspetto, papà”.
Benedizione è ciò che ti coglie, e che orienta alla profondità il tuo sentire: sentire l’origine e l’attesa, sentire l’altro. Non siamo noi ad accogliere la benedizione, né a benedire; è nella benedizione che nasciamo e possiamo riuscire a trovare di nuovo noi e la vita, quando questa si fa difficile ed entra nella nebbia.
Si può tornare a sentire una benedizione sul tempo, anche quando tutto sembra finire. Quando la storia che proviamo, o ci troviamo a raccontare, si spezza o finisce, e pare emergere l’abbandono. Anche allora una attesa, un augurio riesce a far sentire la prossimità e, con essa, il tempo condiviso e aperto.
Anche nelle solitudini il tempo può essere abitato da un dire buono: F. lo ha provato. Il tempo nei tormenti delle nostre storie può serbare delle ricapitolazioni preziose. Può anche ospitare una benedizione sul futuro, in comunicazioni tese nella forma della consegna, dell’eredità per altri. Considerano infatti, i padri e le madri, una benedizione che le figlie ed i figli traccino i loro cammini. Sperano di lasciare loro una buona consegna, il sentire la vita come un dono, come un invito a entrare nel dialogo. Nella benedizione, appunto.[4]
Giorni che nascono da seminagioni, fedeli e continue
I tempi non sono già dati una volta per tutte, possono essere di nuovo detti i tempi, con parole buone, come fossero aperti: i giorni di adesso, nonostante la ripetitività e i fantasmi della mente che li rendono duri e fragili, possono essere portati; i giorni ormai dati, possono essere “ridati” in nuove parole e nuovi gesti. Giorni a venire, temuti e di prova, passano anche del disegno di braccia aperte. E nascono da seminagioni, fedeli e continue, da prossimità come quelle della moglie di F. “Ti aspetto, perché anche tu mi hai sempre aspettato e curato. Mostrandomi la tua presenza, papà”.
Questo lavoro a sé stessi e alla relazione con i figli ha avuto per F. la forza delicata di una fioritura in identità.
Abramo nella salita al colle di Moria trova, a un certo punto, la sua paternità. Il sacrifico del figlio è sospeso, diviene offerta, dono. Abramo sa che il sacrificio e la prova ad Isacco non saranno risparmiati in vita: ogni padre sente ad un certo punto di esporre il proprio figlio, la propria figlia, al sacrificio mentre lo dona accompagnandolo alla vita.[5]Mentre lo cresce, nelle prove e nella abilità, avvertendo presto che non è suo, che non lo controlla, che gli resta impossibile proteggerlo pienamente.
Il padre, Abramo, ad un certo punto coglie e sa che questo è inevitabile. Il figlio, ogni figlio, di generazione in generazione, questo attraversamento lo condurrà in solitudine, per una via sua, con altri. Di fronte a sé stesso, a ciò che troverà nel suo cuore, a ciò che serberà della consegna ricevuta dal padre e dalla madre. È importante che F. torni, per questo.
Sente, insieme, colpa e debito, timore e speranza, ha tenuto dentro rispetto e cura del figlio
Sente, insieme, colpa e debito, timore e speranza, ha tenuto dentro rispetto e cura del figlio: ha capito che dovrà accompagnare, accompagnare e lasciare. La colpa ora è sostenibile, è impegno alla dedizione ed alla buona consegna. Responsabilità e libertà.
Una paternità, ogni paternità, è attesa, dall’attesa è trasformata. Non è signoria, è racconto, indicazione e lascito, di un indirizzo di giustizia e di benedizione. Nel limite evidente, nell’incompiutezza, sempre in un certo insuccesso. Accettato e portato da uomini, (e donne) vulnerabili, e seri. Si è sempre padri attesi.
[1] L. Basset, Il senso di colpa, paralisi del cuore, cit., p. 68.
[2] Ivi, p. 22.
[3] J. Nabert, Eléments pour une étique, PUF, Paris, 1943, p. 22.
[4] I. Lizzola, La paternità oggi. Tra fragilità e testimonianza, Pazzini, Rimini, 2014.
[5] Per un confronto tra alcune letture della prova di Abramo ed Isacco vedi: S. Petrosino, Il sacrifico sospeso, Jaca Book, Milano, 2000; C. M. Martini, Abramo nostro padre nella fede, Borla, Roma, 2000; H. Baharier, La Genesi spiegata da mia figlia, Garzanti, Milano, 2006.