Dalla lettera di Paolo ai Colossesi 3,1-11
1 Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; 2rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. 3Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! 4Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
5Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria; 9Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni 10e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. 11Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.
La sera di Pasqua è risuonata questa lettura in tutte liturgie celebrate nelle nostre chiese.
Ma è veramente questa la nostra identità? Si fonda qui la nostra speranza? Ci crediamo davvero? Le nostre parole, i nostri pensieri, le nostre azioni ed omissioni sono generate davvero da questo “uomo nuovo”?
L’identità vera e profonda è molto più dell’identificazione. E’ qualcosa che succede a noi tutti nelle relazioni importanti della vita: il “tu” non è qualcosa che si possa scegliere, perché il suo volto da se stesso si impone, si rende evidente e necessario alla nostra identità. In ogni situazione e in ogni persona, in ogni incontro c’è sempre più di quello che vedono gli occhi; c’è sempre una presenza, un mistero, un vuoto, una realtà più alta e profonda.
Il Dio cristiano è essenzialmente trinitario; la Trinità non è semplice monoteismo, né tantomeno triteismo. Dio non è sostanza ma Relazione, una relazione radicale in cui siamo coinvolti noi e il cosmo. Questa è la strada della nostra trasfigurazione. Noi siamo “tempiterni”, non siamo solo tempo. La “tempiternità” è l’esperienza della pienezza dell’esistenza. Questo significa essere risorti in Cristo.
Il nostro essere nel mondo ma non del mondo. Essere felici, beati. Vivere partendo dalla resurrezione, come ci ha ricordato D.Bonhoeffer, questo significa Pasqua.
Ma mi è talmente evidente che non vivo così, che non sono così ! Tutto preso come sono a perfezionare il mio io, a glorificare il nostro noi. Tutto preso dalla volontà di potenza e da desideri che non potranno mai essere soddisfatti. L’ autocondanna di Sisifo.
Non posso dunque che farmi aiutare, che chiedere aiuto a Dio, agli uomini, al cosmo. Da solo non ci riesco.
Per provare almeno a vivere questa speranza ho bisogno dell’altro. E’ l’altro la mia esperienza di rivelazione, di trasformazione, di resurrezione. E’ l’altro che fa affiorare la trascendenza dall’opacità dell’immanenza. Altrimenti il nostro essere sospesi tra il nulla e l’eternità diventa inesorabilmente l’essere sospesi tra il nulla e il nulla. Singolarmente e collettivamente.
Nelle nostre mani incerte teniamo letteralmente il futuro dell’avventura divina sulla terra e non possiamo abbandonarla, anche se volessimo abbandonare noi stessi. Questa è la nostra libertà, la nostra responsabilità, la nostra speranza.
Possiamo costruire e distruggere, possiamo guarire e ferire, nutrire o affamare, perfezionare o deformare. C’è una eternità nelle nostre azioni non solo nella nostra contemplazione. Le occasioni irripetibili delle vite finite in cui l’esito va sempre nuovamente deciso. L’uomo è nato per rinascere e per far nascere, per mettere al mondo insieme a Dio il mondo. Ogni giorno. Questa è la nostra odissea, la nostra avventura dello spazio e del tempo, nello spazio e nel tempo
La frattura tra uomo ed essere nella sua totalità è alla base del nichilismo. Se il presente non è altro che il momento della crisi tra passato e futuro, se i valori sono posti solo come progetto della volontà umana, l’esistenza è condannata a una interrotta futurità, con la morte come meta. Una corsa dal nulla al nulla.
Ma per questo dobbiamo fare un passo in più, un passo oltre: vivere l’eterno in ogni istante, il trascendente nell’immanente, facendoci raggiungere dalla realtà che ci viene incontro carica sempre di novità. E’ Dio che ci viene incontro dal futuro, non l’idolatria della tecnologia, né la presunta potenza della tecnoscienza.
Ricevere, accogliere l’invito dell’altro, farsi con-vincere porta con sé un grande potere di trasformazione perché ospitiamo nel nostro essere il dono dell’altro. Siamo per-donati, gustiamo il sapere e il sapore della Vita. Il Signore risorto ci dona una parola e ci chiede di ascoltarla, di osare un cammino diverso, di ricominciare per un’altra via, avendo fiducia in quell’unica parola. Questo ascolto trasforma il nostro cuore.
C’è ancora modo di attraversare la notte. C’è ancora speranza se sapremo prendere sul serio la nostra povertà, la nostra impossibilità, aiutandoci reciprocamente a vivere da risorti.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Andrò in giro per le strade
zufolando, così,
fino a che gli altri dicano: è pazzo!
E mi fermerò soprattutto coi bambini
a giocare in periferia,
e poi lascerò un fiore
ad ogni finestra dei poveri
e saluterò chiunque incontrerò per via
inchinandomi fino a terra.
E poi suonerò con le mie mani
le campane sulla torre
a più riprese
finché non sarò esausto.
E a chiunque venga
– anche al ricco – dirò:
siedi pure alla mia mensa,
(anche il ricco è un povero uomo).
E dirò a tutti:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Tutto è un suo dono
eccetto il nostro peccato.
Ecco, gli darò un’icona
dove lui – bambino – guarda
agli occhi di sua madre:
così dimenticherà ogni cosa.
Gli raccoglierò dal prato
una goccia di rugiada
– è già primavera
ancora primavera
una cosa insperata
non meritata
una cosa che non ha parole;
e poi gli dirò d’indovinare
se sia una lacrima
o una perla di sole
o una goccia di rugiada.
E dirò alla gente:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Non credo più neppure alle mie lacrime,
e queste gioie sono tutte povere:
metterò un garofano rosso sul balcone
canterò una canzone
tutta per lui solo.
Andrò nel bosco questa notte
e abbraccerò gli alberi
e starò in ascolto dell’usignolo,
quell’usignolo che canta sempre solo
da mezzanotte all’alba.
E poi andrò a lavarmi nel fiume
e all’alba passerò sulle porte
di tutti i miei fratelli
e dirò a ogni casa: «pace!»
e poi cospargerò la terra
d’acqua benedetta
in direzione
dei quattro punti dell’universo,
poi non lascerò mai morire
la lampada dell’altare
e ogni domenica mi vestirò di bianco.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
E non piangerò più
non piangerò più inutilmente;
dirò solo: avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso
poi non dirò più niente.
David Maria Turoldo