Spunti di riflessione sul vangelo di domenica 5 maggio, sesta di Pasqua – “B”.
Il vangelo è Giovanni 15, 9-17
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Quale strana “casa” ci invita ad abitare Gesù: l’amore. Bisogna “abitare” nell’amore. Spesso ci lasciamo spaventare da un cinismo dilagante. Che senso ha parlare di amore, e di un amore così, quando, dappertutto, dilaga il confronto, la competizione, lo scontro, la guerra?
Parlare di amore sembra un lusso per qualche romantico fuori dal tempo.
Bisogna che noi cristiani non ci dimentichiamo mai che l’amore che viene dall’alto, da Dio, si costruisce nella nostra storia umana. La salvezza, quella che noi chiamiamo salvezza – la liberazione dal male e dalla morte – passa attraverso un processo di umanizzazione. Quando io cerco di andar d’accordo con i miei familiari, con i colleghi di lavoro, quando cerco di usare bene i soldi e le cose di cui dispongo… Insomma, quando cerco di essere un uomo autentico, di fare bene il mio “mestiere di uomo”, io sto rendendo reale la salvezza di Dio. La mia amicizia umana diventa segno dell’amicizia che Dio mi ha donato. “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato…”.
Da qui si capisce come una delle nostre grandi tentazioni sia quella di fare molte cose e di dimenticare gli uomini. Facciamo molto e dimentichiamo di costruire una famiglia, una società, una umanità più giusta, più fraterna. Se avviene così, Dio ha le mani legate perché noi uomini gliele abbiamo legate.
Nella “Ricerca del tempo perduto” di Proust c’è un passaggio interessante. Parla il personaggio inquietante e grandioso, il barone De Charlus, il quale si rivolge al narratore e gli dice: “Coltiviamo begonie o tagliamo siepi in mancanza di meglio, perché siepi e begonie si lasciano fare. Ma preferiremmo dedicare il nostro tempo a un arbusto umano, se ne avessimo la certezza che ne valga la pena” (“Alla Ricerca del tempo perduto”, Milano, 1986, vol. II, p. 346). Non riusciamo spesso a convincerci che vale la pena coltivare qualche arbusto umano e preferiamo un’automobile, una sciccheria in casa, la tastiera di un computer…
Forse, allora, si capisce perché Gesù ha pronunciato queste parole mentre è seduto a tavola. Egli vuole i suoi discepoli così: una comunità fraterna, conviviale, che, amandosi, mette tutto in comune.
Se la Chiesa ha perso oggi la forza della sua testimonianza, non è forse perché è meno fraterna, meno conviviale, troppo uguale al mondo? Dovremmo vivere come se fossimo sempre a tavola insieme. Non è la ricchezza del dono, ma la ricchezza dell’amore che unisce che rende ricco qualsiasi dono.
Per questo Gesù non ha scelto un cibo squisito per darsi ai fratelli, ma un cibo quotidiano, semplice: il pane. E quel cibo così povero rivela la straordinaria ricchezza del dono di cui è segno. Noi diamo qualcosa di povero: noi stessi, ma se è pieno del bene che ci vogliamo, quella cosa povera diventa ricchissima. L’amore verso gli altri diventa una splendida immagine dell’eucaristia e il modo concreto con il quale Dio si dona a noi.