“La zona d’interesse”

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Il film ha vinto recentemente l’Oscar per la miglior pellicola straniera: premio meritatissimo! 
Il primo comandante del campo di sterminio di Auschwitz vive una vita normale nella sua famiglia.
L’inquietante “banalità del male”

Liberamente ispirato all’ omonimo romanzo di Martin Amis, è la storia di una famiglia tedesca apparentemente normale che vive – in una bucolica casetta con piscina – una quotidianità fatta di gite in barca, del lavoro d’ufficio del padre, dei tè della moglie con le amiche, delle domeniche passate a pescare al fiume.

La telecamera fissa mostra così una routine senza particolari scossoni, con i personaggi che si muovono proprio come se fossero a casa loro. L’osservazione del regista, il bravissimo Jonathan Glazer, è infatti distaccata, quasi clinica. 

Peccato che il pater familias in questione sia Rudolf Hoss, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz, realmente vissuto, artefice di un sistema di forni crematori a ciclo continuo, dotati, sempre grazie a lui, del micidiale Zyclon B, acido cianidrico, per ottimizzare e accelerare le uccisioni. 

Con la sua famiglia, la moglie Hedwig e i loro cinque figli, Hoss trascorre la propria quotidianità all’interno della cosiddetta “zona d’interesse” (da qui il titolo del film) di circa 25 miglia attorno al campo, volutamente ciechi all’orrore che si sta consumando oltre il muro che li divide dal campo di sterminio. Che non viene mai mostrato, ma solo evocato attraverso le ciminiere che fumano, i latrati dei cani, le urla, i lamenti, gli spari, le ceneri che si depositano ovunque, facendo lacrimare gli occhi: sempre in sottofondo, in una sorta di leit- motiv quasi in sordina, ma tuttavia ben presente.

Per raccontare la Shoah in altro modo

Secondo il regista infatti oggi l’unico modo di rappresentare cinematograficamente l’abominio del lager, senza tentare di conquistare l’attenzione dello spettatore con la commozione o il raccapriccio, è proprio quello di rendere il film un po’ ostico, non addomesticato al solito pensiero comune. E’ necessario insomma trovare nuovi modi per parlare  della Shoah perché sia ancora visibile dopo innumerevoli rappresentazioni.

Il fuori campo dunque è più devastante di ogni rappresentazione dello sterminio. E anche la stridente difformità tra lo squallore delle baracche, anticamera della morte, che tutti conosciamo, ma che qui restano in secondo e terzo piano, e quel giardino (ricostruito perfettamente, su un’accurata ricerca di dati storici), oasi traboccante di vita e bellezza, speculare alle idilliache gite nella campagna polacca. Dove Hoss si rivela un padre amoroso, un marito infedele ma attento, un uomo noioso e incidentalmente un criminale contro l’umanità. Un borghese piccolo piccolo autore di  atrocità colossali, con la capacità tutta umana di essere contemporaneamente individui amorevoli e insieme mostri di crudeltà.

“Un film sull’oggi”, un avvertimento

Un film sulla banalità del male, certo, per dirla con la Arendt, e sulla memoria, davvero sollecitata, senza alcuna retorica.

Va notato poi che in contrasto con la luminosità quasi iperreale e abbagliante della pellicola, sequenze in bianco e nero mostrano una ragazzina partigiana, vissuta veramente, di nome Alexandria (a lei il film è dedicato), che nasconde frutta nei cumuli di terra e cenere vicini al campo per sfamare i deportati: un registro visivo alternativo a indicare una dimensione che conosce la pietà rispetto a quella abbrutita di casa Hoss. Dove, al di là dell’ideologia nazista, una certa logica borghese mette il proprio benessere al primo posto rispetto a tutto, fosse anche il massacro di un popolo.

Vengono in mente allora i paralleli con il contemporaneo: la propria sicurezza domestica, e l’indifferenza, il non voler vedere, anche se al confine con la tragedia.

Ha detto al proposito Glanzer: “Ero determinato a non fare un film sul passato ma sull’oggi, perché questo non è un documento. Non è una lezione di storia. E’ un avvertimento”.

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