“Oggi ‘siamo tutti migranti’, nel senso che tutti lasciamo porti sicuri per un viaggio nel mare aperto della complessità con poche coordinate di orientamento alla ricerca di nuovi approdi accoglienti”. Così Anna Staropoli in un articolo dell’ultimo numero di Aggiornamenti sociali, del centro San Fedele, dei gesuiti di Milano. L’articolo lo dice a proposito della politica. Ma l’affermazione riguarda un tratto dominante di tutta la nostra cultura.
Riguarda anche la Chiesa ovviamente. E, a proposito della Chiesa, mi pare che una delle grandi scommesse della Chiesa di oggi sia proprio quella di come convivere con il carattere transeunte che la segna, e quindi con il suo carattere di “migrante”. Per una ragione molto semplice: la Chiesa è una istituzione, complessa e segnata da una lunga, lunghissima storia.
Siamo abituati a parlare della Chiesa come di una realtà nota, definita. Ma proviamo a pensare alle differenze che si trovano in una normale comunità parrocchiale: diversità di età, cultura, sensibilità religiosa… E poi la storia mellenaria che la Chiesa come tale ha alle spalle e la storia pluricentenaria che, mediamente, segna ogni comunità locale. Basta consultare un qualsiasi archivio parrocchiale per rendersene conto. E una storia così lunga è sempre, anche, pesante e segna, in modi vari e spesso inavvertiti ogni comunità.
È quasi una banalità, questa. Ma proprio perché banale, si tratta di una verità facilmente dimenticata. Ora, tutto questo definisce l’aspetto fortemente istituzionale della Chiesa.
Ma si deve subito dire che questa istituzione è chiamata a rispondere alle provocazioni della storia e del presente, soprattutto, nel quale la Chiesa vive e con il quale deve dialogare. Per cui si dovrebbe dire che la Chiesa è una istituzione che cammina, che deve camminare. Qui però si annida il guaio, perché una istituzione che cammina è meno istituzione.
E si capisce che nella Chiesa di oggi siano numerosi quelli che vorrebbero fermare la transizione per salvare la Chiesa. E pensano che basterebbe bloccare il movimento perché tutto il travaglio della Chiesa si risolva.
Ma non s’accorgono – o forse non vogliono accorgersi – che non è il mondo attorno che si muove perché si muove la Chiesa, ma è la Chiesa che si muove per si muove il mondo. E, quindi, la Chiesa non può decidere lei di fermare tutto, ma può decidere solo di fermare se stessa.
Intanto, però, mentre lei decide di fermarsi, il mondo va avanti, se ne va nonostante, e l’unico risultato è che aumenta vertiginosamente la distanza fra il mondo che se ne è andato e la Chiesa che si è fermata.
Forse è proprio questo uno dei punti più nevralgici della discussione attuale nella Chiesa: tra chi vorrebbe che la Chiesa si muovesse e si muovesse di più e chi, invece, vorrebbe che la Chiesa si muovesse di meno e, se possibile, si fermasse.