Il nuovo Presidente della Repubblica. Problemi e prospettive

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Il nuovo Presidente della Repubblica. Problemi e prospettive

Il palazzo del Quirinale, sede del Presidente della Repubblica

Da questa riflessione – dedicata all’elezione prossima del Presidente della Repubblica –
non ci si aspettino rivelazioni, né previsioni.
Chi scrive non intrattiene rapporti confidenziali con esponenti di forze partitiche
da cui possano scaturire suggerimenti o anticipazioni su possibili esiti.
Credo anzi che, soprattutto per un costituzionalista, sia sano mantenere una certa lontananza dal potere.

 

Si vogliono pertanto mettere in luce solo alcune poste in gioco, a partire dalla Costituzione e dal contesto politico in cui questo importante appuntamento istituzionale cade.

I modi dell’elezione

Lunedì 24 gennaio inizieranno le votazioni per le elezioni del prossimo Presidente della Repubblica, da parte del Parlamento in seduta comune, integrato da 58 delegati regionali. Si voterà a scrutinio segreto, senza la proposizione di candidature formali.
C’è una saggezza in questa modalità di elezione, prevista dalla Costituzione e coerente con il ruolo che ci si deve aspettare dal Presidente della Repubblica.
La sua investitura non deve poter essere ricollegabile a una specifica maggioranza, perché il Presidente sia garante super partes e non avverta debiti di parte da ripagare. L’elezione diretta popolare, che qualcuno auspica come riforma costituzionale, a seguito della campagna elettorale, e/o la presentazione di candidature formali pregiudicherebbero questo esito e colorerebbero inevitabilmente di una tinta particolare il Presidente.

La Costituzione prevede che sia eletto Presidente il cittadino o la cittadina che ottenga la maggioranza dei 2/3 del collegio (formato dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali) per i primi tre scrutini e, se nessuno/a ottiene questa maggioranza, dal quarto scrutinio in poi, è sufficiente la maggioranza assoluta (metà più uno del medesimo collegio).

Mattarella-bis? Perché no!

Credo anzitutto che sia stato molto saggio Mattarella a declinare inopportuni e ripetuti inviti a una disponibilità a un secondo mandato, magari solo parziale. La Costituzione, a riguardo, non detta limiti espliciti e tuttavia vi si ricava una chiara preoccupazione di evitare che il Presidente possa orientare lo svolgimento del suo mandato per compiacere una specifica maggioranza che lo possa poi ri-eleggere.

È questa la stessa preoccupazione alla radice del “semestre bianco” e cioè di quella norma costituzionale espressa (art. 88) che fa divieto al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato. La ratio di questa norma è proprio quella di scongiurare incroci pericolosi tra le elezioni del Parlamento, con conseguente formazione di una nuova maggioranza (e di un nuovo Governo), e l’elezione presidenziale.

Per le funzioni del Presidente della Repubblica la Costituzione prevede un mandato molto lungo (sette anni), sfasato rispetto alla durata della legislatura (cinque anni). Oltre tutto il mandato deve iniziare in età non verde (almeno 50 anni), e con la previsione poi – al termine del mandato presidenziale – di un seggio di senatore di diritto e a vita. L’insieme di queste norme denota chiaramente la volontà, impressa nella Costituzione, di tracciare per il Presidente un percorso di garanzia, che lo mantenga al riparo da tentazioni di parte politica.

Vi è poi da sottolineare il rischio – troppo sottovalutato – che il rinnovo, da eventualità eccezionale, invocata per tempi che possono apparire effettivamente straordinari (come quando fu rieletto Napolitano), diventi la regolarità. Fino anzi a creare un’aspettativa, in capo al Presidente uscente stesso, tanto che la mancata ri-candidatura possa addirittura essere interpretata come espressione di sfiducia… La saggezza di Mattarella di oggi ci mette quindi al riparo da possibili – meno saggi – Presidenti di domani…

Un Presidente davvero repubblicano

Io credo che da cittadini dovremmo augurarci anzi tutto che venga eletto un Presidente che rechi in sé l’ampiezza del respiro della Repubblica. E cioè il respiro di una comunità che non è solo Stato, ma che è insieme società e istituzioni, autonomie sociali e territoriali. La presenza – pur in sé numericamente molto ridotta – dei delegati delle Regioni è un segno di questa comunità repubblicana – eccedente rispetto allo Stato – che sceglie il “nostro” Presidente.

Il respiro della Repubblica significa anche il richiamo a una concezione attiva della libertà e a una visione partecipativa della democrazia (il “repubblicanesimo”, appunto), che sono contenute nella trama della Costituzione e che il Presidente dovrebbe contribuire a esprimere e almeno a promuovere.

Mi pare che questa apertura repubblicana sarebbe tanto più vitale in tempi – come quelli che stiamo vivendo – di ripiegamento tragico e ottuso del sistema partitico su se stesso: i partiti si sono rivelati incapaci di raccogliere la sfida della riforma elettorale, fino a – e anche dopo – l’intervento con cui la Corte costituzionale ha cassato manipolazioni abusive del voto.
Si sono rivelati incapaci di prendere sul serio la riforma della rappresentanza politica – dopo il grido di disperazione del taglio del numero dei parlamentari. Non hanno saputo ridare un senso al rispecchiamento del pluralismo sociale e territoriale che il Parlamento dovrebbe incarnare. E non hanno saputo affrontare la madre di tutte le riforme (la più temuta): la democratizzazione dei partiti stessi, in adesione all’art. 49 della Costituzione. Senza partiti che siano radicati nel tessuto democratico, i canali di collegamento e di dialogo tra corpo sociale e istituzioni rischiano l’occlusione o di scorrere al di fuori della trama istituzionale.

La tragedia dei partiti

Il politologo G. Orsina, in una recente trasmissione televisiva (Omnibus del 30.12), ha osservato che vi è ormai una separazione tra politica-partitica, ridotta a una sorta di recita, e azione di Governo. In effetti, mi pare che i due canali siano ormai distinti.

Ciò tuttavia apre a un problema di senso per i partiti. Se nemmeno più si assumono responsabilità di Governo, trincerati come sono dietro a una leadership tecnica, quale funzione positiva è rimasta loro? Sappiamo sin troppo bene quanto poco – anche in conseguenza della loro mancata democratizzazione – effettuino la selezione della classe politica. E sappiamo anche da quanto tempo (forse da sempre) abbiano smesso di “socializzare” la base dei cittadini alle questioni politiche.

I partiti non solo non sono strutturati democraticamente (mai lo sono stati), ma hanno progressivamente inaridito le radici che affondavano in mondi sociali vitali. Ora essi fluttuano nel vuoto, distribuendo rendite e alimentando un autoreferenziale professionismo politico-istituzionale. Convengo che è difficile fare a meno dei partiti, ma questo non può diventare l’alibi perché si chieda di trangugiare bocconi sempre più indigeribili.

Tale soffocante ripiegamento è un dato da tenere bene in mente, perché già ora opera quale fattore di condizionamento negativo dell’operato del Presidente della Repubblica. Basti pensare alla mancata (eppure doverosa!) “parlamentarizzazione” della crisi di Governo del Conte 2, dimessosi dopo aver ottenuto la fiducia. Ma anche al perdurante svilimento del Parlamento (con ripetuti voti di fiducia e compressione dei tempi di discussione).

Si capisce bene come, in un simile contesto, sia essenziale che il Presidente non diventi un ulteriore elemento di chiusura (la cappa!) del sistema partitico su se stesso, ma resti una valvola di apertura, dialogo e traspirazione tra interno istituzionale ed esterno.

Purtroppo, viene da pensare che in una situazione come quella determinatasi, non sia più una garanzia nemmeno il vasto accordo tra forze politiche: essa è una condizione certo necessaria, ma non più sufficiente…

In questo orizzonte, alcuni nomi di “papabili” che circolano sarebbero davvero deleteri, perché tutti interni al sistema partitico. In alcuni specifici casi, poi, per elementari ragioni di etica pubblica, non se ne dovrebbe nemmeno parlare… Vi è anche il dato, davvero triste, delle auto-candidature, che dovrebbero sempre e comunque suscitare diffidenza. Ma dovrebbero suscitare diffidenza in un’elezione così cruciale, come quella presidenziale, in cui il protagonismo personale e narcisista è un pessimo prodromo, così come lo sono atteggiamenti vagamente ricattatori che dovrebbero essere severamente banditi.

Questa del “respiro repubblicano” è – mi pare – la vera priorità su cui vigilare, ancor più di quella – pur importante – di genere (la prima donna Presidentessa!), anche se le due questioni potrebbero benissimo armonizzarsi. Infatti, non mancano certo donne capaci di garantire quella apertura che si è invocata (la Segre, auto-esclusasi, è un esempio luminoso). Detto per inciso: Mattarella e la Segre dimostrano, ancora una volta, come la saggezza suggerisca spesso – con ottime ragioni in questi casi – di ritrarsi, anziché di proporsi…

Un Draghi sul Colle?

Alla luce dei criteri esposti va letta l’ipotesi – oggi tra le più accreditate – di Draghi al Quirinale. Draghi ha certamente doti di relativa indipendenza dal sistema partitico, di cui non è espressione. Egli, inoltre, incarnerebbe bene la figura di garante della cornice europea in cui la Repubblica è incardinata, assai più che della sua anima costituzionale. Questo ancoraggio europeo non è però un pregio trascurabile, perché ormai la cornice comunitaria è parte del quadro.

Ma in questa operazione – per come viene prospettata – c’è un rischio che non può essere taciuto. E’ quello di traslocare l’indirizzo politico da Palazzo Chigi al Quirinale, cercando nel Presidente della Repubblica il garante della stabilità – anche agli occhi dell’Europa – del Governo e del suo programma, in un implicito presidenzialismo di fatto.
Questa sarebbe una torsione pericolosa, perché il Presidente della Repubblica scadrebbe al ruolo di garanzia del sistema partitico, da questo usato come parafulmine rispetto all’assunzione di responsabilità di governo. Invece di essere – come dovrebbe – il richiamo vivo all’equilibrio costituzionale delle istituzioni (e alla separazione dei poteri) e al loro legame con una democrazia vitale, in Italia e in Europa.

Soffierà lo spirito della libertà?

L’11 marzo 1947, in Assemblea Costituente, il laico Benedetto Croce invitò a elevare un’implorazione allo Spirito Santo, attraverso l’invocazione «Veni creator Spiritus».
Il Parlamento in seduta comune non è il conclave e non ci piace mescolare sacro e profano, ancorché per una così solenne occasione civile. Ma certo un soffio di libertà – e di responsabilità – servirebbe nelle sedi istituzionali…

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