
In principio è Dio che parla.
È la parola di Dio, dabar in ebraico, nel suo denso significato di rivelazione, che non è solo un mezzo per trasmettere informazioni su Dio, ed è molto di più di una regola di vita, perché essa stessa possiede il divino.
Nella Parola è la potenza di Dio, la sua verità che si traduce in res, in azione, in storia.
È la parola infinita di Dio che si serve delle parole umane diventando “finita”, per entrare nella nostra piccolezza e aprirsi a un dialogo.
È il “verbum abbreviatum” come la definisce Karl Rahner, la parola rimpicciolita, che non dice tutto, non esaurisce il mistero, (come potrebbe?), ma comunque ci permette di essere introdotti nel rapporto in cui Dio si manifesta velandosi.
In questo modo la sua Parola è grazia.
D’altronde lo stesso Agostino diceva; “Si est Deus, non comprehendis”, perché la Parola non è qualcosa di misurabile, di quantificabile, non è un righello da squadra, ma un luogo di risonanza dell’oltre di Dio, della sua santità. Lì c’è spazio per l’inafferrabile, per l’incomprensibile, o meglio, sempre con le parole di Rahner, per quella “lucente oscurità” che ci seduce e ci attrae.
In questo logos è la sorgente della vita e in questo logos il fine della vita.
“Qualcuno ne rimane rapito, qualcuno che,
entrato nel raggio della parola divina, ne resta prigioniero perché sa che questa parola non trasmette prima di tutto una teologia, non è speculazione, ma essa stessa possiede, nascosta sotto il tessuto della lettera, l’epifania di Dio” (von Balhasar).
Così Geremia:
Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia del mio cuore” (Ger 15, 16).
Poi la stessa parola gli usa violenza: vorrebbe liberarsene, ma non può. Essa è diventata parte integrante della sua persona:
Non penserò più a lui, ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente. Mi sforzavo di contenerlo , ma non potevo” (Ger 20, 9).
Ezechiele mangia la parola che gli si presenta sotto forma di rotolo della Legge ed essa
nutre il ventre ed entra nelle viscere fino ad essere assaporata come miele” (Ez 3, 2-3).
Gli uomini di Dio sono afferrati dalla Parola, si sono lasciati “circoncidere il cuore”, e ora è diventata la loro stessa vita, “seme rigeneratore” (1 Pt 1, 23), così che non c’è più distanza fra ascolto e testimonianza, fra fede e vita.
La Parola coinvolge completamente.
“La tua Parola è verità” (Gv 17, 17) dice Gesù nella sua preghiera al Padre, dove verità sta per l’essenza stessa di Dio. Non un’astrazione, ma il modo che Dio ha scelto per incontrare l’uomo.
È Dio che si offre agli uomini perché questi lo possano conoscere e vivere per Lui.
È parola che realizza mentre comunica. E’ quella della creazione. “Sia la luce! E la luce fu”.
È la parola della promessa e della benedizione date ad Abramo.
È la parola rivelativa del nome di Dio, rivolta a Mosè.
È la parola dell’alleanza e della comunione.
È la sconvolgente parola che odono i profeti: “Il Signore Dio ha parlato: chi può non profetare? (Am 3, 8).
È la parola dell’amore: le dolcissime rime del Cantico, le suppliche di Davide, i canti dei Salmi, gli inni di vittoria di Debora e di Giuditta, sono le preghiere di Tobia e il grido di dolore di Giobbe.
Poi, nella “pienezza dei tempi”, la Parola si fa carne: fragilità, terra, sangue, umanità: si fa Cristo, egli che “ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana” (Ebr 4, 15).
L’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, ciò che dà senso a tutte le parole disperse nel mondo, che porta a compimento i frammenti di ogni cosa creata.
È Parola unica. Criterio decisivo.
“Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio”. Così scriveva papa Gregorio all’imperatore Teodorico. E un antico detto giudaico:
Gira e rigira la parola di Dio. Contemplala, invecchia e consumati in essa.
L’uomo non può conoscere l’intimo di Dio se non attraverso la sua parola: parola che costringe ad andare fuori rispetto a noi stessi e ai nostri orizzonti, che ci invita a un attento ascolto, per non incorrere nella tentazione di incontrare un salvatore immaginario, un dio fatto a nostra immagine, un idolo. Per non cadere nella tentazione di sentirci padroni della parola e ridurla a strumento dei nostri interessi usandola per usare gli altri.
È apertura al nuovo, all’insperato, all’impossibile.
“Niente è impossibile a Dio”.
Ma per “vivere” ha bisogno di un “Sì”.
“Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” ( Lc 1, 37-38).