
Specialmente nei primi giorni di guerra, la TV ce li ha mostrati: seri, gli occhioni intenti, infagottati in piumini colorati, spesso in braccio il gattino di casa o il peluche preferito.
Sono i bambini ucraini, più fortunati degli altri, verrebbe da dire, perché fuggiti con qualche parente, soccorsi dalla Croce Rossa, e riparati in Paesi vicini (la Polonia, in particolare). Ma non hanno comunque più casa, il loro mondo tranquillo è stato stravolto, la loro serenità cancellata, i loro allegri giochi spazzati via da sirene, rifugi, bombe, razzi, carri armati. Alcuni poi sono rimasti orfani.
Per non parlare dei piccoli scomparsi in Russia (che fine hanno fatto?) o rimasti uccisi sotto le macerie dei loro palazzi. Una tragedia immane, che si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, e coinvolge tutti, ma in particolare i bambini, le vittime più fragili e innocenti.
A loro ho pensato spesso, durante la lettura del bel libro di Titti Marrone, “Se solo il mio cuore fosse pietra”. Il titolo è una citazione da “La strada” di Cornac Mccarthy e si riferisce allo stato d’animo dell’autrice nell’affrontare il tema del racconto e, prima ancora, a quello delle educatrici che incontreremo nel corso della narrazione.
Che è tratta da una storia vera, anche se poco conosciuta. La Marrone ha infatti consultato archivi, incrociato documenti, foto, diari e lettere. Ha sentito le voci degli ormai pochi testimoni (in particolare, le sorelle Tatiana e Andra Bucci, la cui vicenda, unica tra le altre, si è conclusa felicemente con il ritrovamento dei genitori), con grande rispetto per le fonti e nessuna sovrapposizione.
In una villa di campagna di un mecenate inglese i piccoli ebrei reduci dai campi di sterminio
Ne è nato così questo libro, ambientato nel 1945, allorché la grande villa di campagna di un mecenate inglese diventa una residenza per i piccoli ebrei reduci dai campi di stermini. Sono 25 bambini tra i 4 e i 15 anni. La loro cura è affidata a Alice Goldberger, collaboratrice di Anna Freud (figlia di Sigmund), affiancata da altri educatori.
I ragazzini sono traumatizzati, ciascuno ha una storia diversa, terribile e speciale, un suo personale inferno. C’è chi proviene da nascondigli dove i genitori lo hanno affidato ad altri, non sempre benevoli, per salvargli la vita, chi da conventi o orfanatrofi, chi da Terezin o Auschwitz.
Bambini che non hanno mai conosciuto l’amore o una carezza, molti nemmeno una mamma, né un giocattolo, né la musica, né il cibo solido, perché abituati alla zuppa rancida del lager, dove possedere il cucchiaio per mangiarla faceva la differenza, perché significava vivere o morire di fame. E soprattutto questi piccoli sono accomunati dal terrore verso gli adulti, di cui diffidano e che vedono come traditori e ingannatori.
Soli, denutriti, privati della loro stessa personalità e innocenza, abituati all’odore della morte nell’aria, malati nel corpo e nello spirito: come aiutarli?
Alice e la sua équipe lottano per restituire loro un ‘infanzia, adottando per oltre un decennio le più recenti acquisizioni della psicologia infantile e della pedagogia. Non occorre solo prendersene cura ma permettere loro di tornare alla vita attraverso un percorso caratterizzato da immensa pazienza e delicatezza, pur con qualche errore, giustificato però dall’eccezionalità dell’impresa.
…per consegnare infine nelle mani di quei ragazzini la possibilità di una seconda vita
Si cerca insomma di insegnare la fiducia e l’aiuto reciproco, di far conoscere l’essenza stessa dell’amore, per consegnare infine nelle mani di quei ragazzini la possibilità di una seconda vita.
Solo più tardi si arriverà alla ricerca di parenti ancora vivi o di famiglie disposte all’adozione. Non tutte le storie avranno un lieto fine – una tragedia simile ha un’onda lunghissima – , ma molti di quei ragazzi, divenuti adulti, ricorderanno il periodo trascorso nella villa inglese come uno dei più felici della loro esistenza.
C’è infine una figura silenziosa, quella di Sergio De Simone, 8 anni, (cugino delle sorelle Bucci e come loro internato ad Auschwitz), piccolo fantasma che spunta tra le pagine del libro quasi in punta di piedi. Ma è sempre presente, con il rumore di un’assenza che non ha alcuna giustificazione: il modo in cui con l’inganno è stato condotto alla morte è quanto di più subdolo e meschino.
I bambini vittime di allora e quelli di oggi
E chissà allora se nel suo nome e in quello dei milioni di bambini ebrei uccisi, ci sarà un senso di vera e profonda umanità (e non la solita, terribile, indifferenza) verso i giovani profughi dei giorni nostri – siano essi ucraini o migranti. Per questi non si dovrà solo ricostruire cibo, giocattoli, carezze, ma lo si dovrà fare anche e soprattutto con il senso stesso della vita.
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