
Girato in Trentino Alto Adige, è ambientato nel 1944 a Vermiglio, il paesino di montagna in cui affondano le origini familiari della stessa regista, Maura Delpero.
E’ il racconto dunque di un mondo antico restituito con grande commovente naturalezza e osservato con molta attenzione, un racconto felicemente stratificato che guarda alla struttura del romanzo familiare per dare voce a temi diversi.
Siamo nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, guerra che nel film non compare mai – perché Vermiglio è un posto isolato – ma che tutti sentono, e che è sempre presente nell’angoscia di chi ha i propri cari in battaglia, nel dolore di chi li ha persi, nelle mutilazioni interiori dei reduci, e infine nella vita di chi non c’è stato, di chi è rimasto a lavorare nelle cucine o nelle scuole.
Protagonista è la famiglia Graziadei, con a capo Cesare, maestro di scuola in una classe che ospita alunni di età diverse, con la moglie sempre incinta e una gran quantità di figli, tra cui Lucia, che si innamora ricambiata di un soldato siciliano disertore rifugiatosi nei dintorni.
Paradossalmente, a guerra finita gli equilibri di questa famiglia salteranno: il mondo ritroverà la pace, mentre i Graziadei la perderanno e si definiranno i destini dei figli (chi fuggirà in città, chi si ritirerà in convento, chi affronterà un destino di studi, chi invece si ribellerà).
I personaggi comunque si raccontano con la calma e l’apparente semplicità di un tempo, in uno schema di relazioni domestiche ben codificate dal costume sociale e dall’abitudine , ma sempre in procinto di aprire il fianco al nuovo, e non sempre al meglio. La loro realtà è fatta di minuscole gioie ma anche di tante privazioni e desideri impossibili, in un’epopea di piccoli gesti, dove si agisce molto più spesso per necessità che per piacere.
Tutto però viene stemperato nel film dalle voci dei bambini, che, puntuali nel commentare con ironia le vicende, diventano una sorta di coro, quasi da teatro greco.
Protagonisti sono appunto sicuramente i Graziadei, ma anche tutta la piccola comunità che li circonda, e che al tempo stesso protegge e giudica, sostiene e condanna. La storia allora, tra morti e parti, delusioni e rinascite, tratta di bambini e di adulti, che si tengono stretti nelle curve della vita, fino a farsi da collettività individui.
I dialoghi sono per lo più in dialetto locale, che evoca atmosfere antiche, ma che si usa ancor oggi nella zona, nelle osterie, alle fontane del paese e nelle case.
Gli attori non protagonisti reclutati in loco (dopo una lunga, accuratissima selezione) danno al film un tono e un colore che lo rendono straordinariamente convincente e onesto.
Altro protagonista è l’ambiente, raccontato senza solennità, a partire dalla relazione degli abitanti con la natura. Che noi spettatori osserviamo per quattro stagioni compiere il suo ciclo in immagini di assoluta bellezza. Ad esempio, l’incanto della neve appena solcata dai passi del maestro e dei suoi figli, figurette nere viste da lontano in un paesaggio bianchissimo, è un fotogramma che mi ha davvero emozionato e fatto pensare alla lezione di Ermanno Olmi.
Ma lo stile cinematografico della regista appare comunque maturo e personale, pieno di pudore e sensibilità e allo stesso tempo poetico e realistico.
E se nel giro di un anno la natura compie il suo ciclo, nello stesso tempo si definisce la sorte dei figli Graziadei.
Così la storia che Maura Delpero racconta, lavorando sulle costrizioni psicologiche e sociali in cui si muovono gli abitanti di una piccola comunità alpina, attraversa un tempo personale per omaggiare una memoria collettiva.