È il cammino di una notte, che al suo inizio percorre l’orto del Getsemani; un giardino familiare, “anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché spesso Gesù aveva riunito lì i suoi discepoli” (Gv 18, 2).
Forse proprio questo è il senso della morte: che i luoghi familiari diventino luoghi notturni, abitati da una tenebra così profonda da non consentire, in essa, di ritrovare nessuno vicino a sé, neppure gli amici, i compagni di cammino, i compagni di molti giorni; trasformati, inospitali, i luoghi familiari, un tempo accoglienti, diventano luoghi di solitudine.
Gesù sa che morirà abbandonato, solo, eppure non rinuncia a portare con sé in quel luogo i propri amici; non lo distoglie sapere che la loro presenza è ormai irrimediabilmente opaca, assonnata, inutile, estranea.
“Li trovò addormentati, sfiniti per la tristezza” (Lc 22, 45): l’evangelista Luca, il più dolce, conosce il nostro cuore, colora di una nota di pietà la nostra vergogna avvilente. Sa quanto sia facile per noi trovare nella tristezza e nell’auto commiserazione un decoroso motivo per desistere, per dormire, per abbandonare la lotta.
Quel combattimento che dovremmo combattere come Giacobbe, per strappare una benedizione all’angelo, chiedendo conto a Dio della nostra assurda sofferenza. Quella lotta della fede e della preghiera di Gesù nell’orto; la sola capace di inginocchiarsi sanguinando di fronte alla morte senza sfuggire altrove, come ora gli amici nell’anestesia del sonno.
La pietà di Luca è in realtà quella di Gesù: “dormite ora, e riposatevi”.
Gesù porta i suoi amici nel giardino per imparare ad amarli fino alla fine, e tenerli presso di sé, anche così addormentati, sulla croce, quando inutilmente i suoi occhi li avrebbero cercati, tanto lontano erano fuggiti.
[Alcuni spunti per questo testo e per quelli della Settimana Santa sono tratti da: Giuseppe Angelini, Li amò sino alla fine, ed. Glossa 1995]