Lizzola/Uomini capaci di perdono

Un dono inaspettato… l’incontro con il mondo lgbt
Giugno 25, 2022
Nascere e morire. Dieci lezioni di Pierangelo Sequeri
Giugno 27, 2022
Ero uscito velocemente (per quanto possibile) dalla Casa circondariale “don Resmini” di Bergamo
alla fine del quinto di dieci incontri del percorso “La cura e la pace in tempo di guerra”.

Pieno di pensieri, di emozioni, di domande e di impegni. Avevamo iniziato da due mesi le attività a piccoli gruppi tra persone detenute e giovani donne e giovani uomini studenti universitari. Metodologia consolidata nel tempo, ispirata ai circles riparativi, con confronti e ricerche serrati sui posizionamenti personali e le scelte di fronte alle questioni forti e laceranti del tempo presente e del futuro. Questioni nelle quali provare a “fare giustizia”.

Ripensare la propria biografia e le proprie responsabilità

Attraversando gli strascichi forti della pandemia, ed il tempo di guerra, ognuno era riportato alla sua non innocenza, alle responsabilità, ai ripensamenti sulla propria biografia ed alle responsabilità.

Una prima sorpresa era stata la numerosità delle richieste di partecipazione sia nelle sezioni del circondariale che in università. La seconda era stata la forza e l’intensità dello scambio delle narrazioni.

Molti tra i detenuti, ed anche qualche studente, venivano da infanzie e giovinezze di guerra o di conflitto; molti dell’aver vissuto (esercitato o subito) gesti violenti, e rappresentazioni del nemico odiato. Forti erano i riverberi sulle storie personali, l’esperienza di pena, il dolore, come sul senso di debito, sulla ricerca (in atto o ancora germinale) di una capacità di riconciliazione, di ricostruzione, di riparazione.

Il padre kosovaro, due figli. Il suo racconto…

In mente tenevo, tra altri, il raccolto appena accolto di H., padre kosovaro con due figli ragazzini. Aveva iniziato dolente, via via si era fatto più presente, attento e misurato nell’usare le parole nei gruppi. Due mesi prima era in piena diffidenza (una sorta di sarcastica curiosità) verso queste e questi giovani “generosi privilegiati”, a sostenere l’inevitabilità disperata della guerra tra genti nemiche.

“Da bambino giocavo in casa con le armi, canticchiavo canzoni di odio anti-serbo nutrendone il mio cuore. Da giovane è arrivato il tempo della guerra!” Poi i racconti delle sofferenze patite e l’ascolto dei servizi coraggiosi resi dai “privilegiati”, e i racconti delle vittime di guerra, e quelli dei “giusti”. Parole pesanti, silenzi difficili; volti, corpi, come quelli dei giovani di Rondine.

Fino a quell’ultimo intervento: “Io ho la vita spezzata, rovinata, ma da prima del reato e del carcere qui in Italia… Tornerò, proverò a raccogliere i pezzi… Ma la cosa importante, ormai l’unica, sarà di cercare di fare in modo che i miei figli guardando o pensando a un altro uomo non vedano mai un nemico da odiare… è il senso del mio futuro.”

Si discute della guerra in Ucraina

Ora ero alla tavola rotonda in Università, una di quelle organizzate per riflettere sulla guerra in Ucraina; docenti di discipline diverse, per lo più di diritto, di economia, di letteratura russa… Un pedagogista che osava pensieri e pratiche: “Educare alla pace in tempo di guerra”… Un problema di pulizia del pensiero, di posizionamento personale nel conflitto interiore, ed in quello esteriore; una ricerca di attenzione alle rappresentazioni e di cura delle parole. Certo la vicinanza alle vittime, come il serbare un futuro non violento, di sminamento delle coscienze e di lucido confronto con la realtà.

Sul filo del rasoio: Weil e Ricoeur, Arendt e Panikkar… e Levi, il bulgaro Todorov e, incontro recente, l’armeno Kuciukian.

Duri i traumi, le ferite, la paura per la propria capacità di distruzione

E la traccia dei giusti, per nella loro non innocenza: a serbare l’umanità nella prova dello scontro di forze. Guardando lo sfiguramento in sé ed in altri. Vergognandosene e provando a ritrovar la strada, a riparare e pulire il futuro. Per “tornare a sentire le cose per dono”, e “la capacità di perdono”, come scrive Clara Mucci. Duri i traumi, le ferite, la paura per la propria capacità di distruzione…

Racconti, tracce di esperienze possibili, solo brevi riflessioni. Tra queste l’ultima narrazione del padre kosovaro: vittima, combattente spietato, autore di reato, padre, uomo.
Infine Korczak e i suoi bambini nell’orfanatrofio del ghetto di Varsavia che usano le ultime loro settimane a parlare della violenza e della morte, e del futuro dei diritti e del mondo.

Lascio la sala, non pienissima ma attenta, e i colleghi economisti umanisti, molto bravi davvero. Dietro di me una domanda, ad alta voce: “…Ma chi mi dice che in condizioni di ripresa del conflitto quel padre non torni a sostenere la guerra e provare odio per i nemici?” Non posso fermarmi: ci guardiamo, è sincero nel suo domandare, non è cinismo: “mi scriva, mi scriva, le risponderò come posso…”

« La guerra, la paura, l’ingiustizia fanno venir meno la morale »

Sarebbe giunta la lettera dopo alcune settimane: sosteneva che è il contesto a determinare molto del comportamento degli umani, e che la guerra, la paura, l’ingiustizia fan venir meno l’etica, la morale, la fiducia. Chiusura e richiesta sorprendente: “Grazie per il tempo che vorrà dedicare a confutare queste mie affermazioni.” Ho provato a rispondere, come ho potuto.

Gentile signor S.,
finalmente trovo tempo per rispondere alla sua domanda alla fine della tavola rotonda in Università (quando sono dovuto “fuggire” per un collegamento imminente), ed alla mail che ha voluto inviarmi successivamente.
Sono davvero convinto che uomini e donne portiamo in noi tensioni e contraddizioni forti, anche possibilità distruttive che, quando sollecitate e organizzate, possono creare le condizioni per guerre e genocidi. Tante volte nella storia, anche nel nostro tempo. Drammaticamente.
Ma è proprio lì, anche in quel tempo (dentro le violenze, le pressioni e i duri condizionamenti della psicologia di massa), che alcune donne e alcuni uomini dissentono, anche in pratiche silenziose ma reali, accolgono, non collaborano.

Serbare le radici dell’umano

Serbano in loro e nelle relazioni con altri i semi, le radici dell’umano. Senza eroismi (a volte sì), senza portare solo virtù, a volte in modo semplice e immediato (accorgendosi dopo di avere agito per il bene, il giusto…). Ne parla Primo Levi ne “I sommersi e i salvati” e ne “La tregua”, ma anche Tzvetan Todorov in “Di fronte all’estremo” e Pietro Kuciukian in “Tra passato e presente”. Segnano possibilità di riannodare legami, speranze. Cura della vita a venire. Non innocenti, eppure capaci di “sentire” e “fare” il giusto e il buono, di preservare futuro.

A volte soli, a volte più numerosi, a volte avviando sentieri comuni. Sono i “giusti”, sono preziosi, durante la violenza e l’ingiustizia non ne rinforzano le logiche, non le assumono, le svelano nella loro verità disumana.
Poi può anche capitare, ed è anche il caso che raccontavo di quel padre detenuto kosovaro, che dopo la durezza, irruenta e spietata di un conflitto cui si è preso parte, la vita ti porti a sentire la colpa di una offesa che tu hai arrecato, di un reato. Hai fatto male ad altri, hai mostrato che porti dentro una forza distruttiva (quella addestrata e praticata in guerra …), ti trovi lontano e di fronte a figli che crescono. Pensi al loro futuro ed a te stesso.

« Hai paura di ciò che hai lasciato crescere dentro di te »

Hai paura di ciò che hai lasciato crescere dentro di te, te ne vergogni e provi colpa. Un po’ si diradano i fumi delle giustificazioni che davi (che si davano) alla violenza e all’odio per il nemico. Incontri da anni uomini affaticati, a volte più dignitosi, a volte più cinici da ogni parte.
Allora puoi giungere a maturare una promessa a te stesso e per i tuoi figli: “Farò di tutto perché non pensino mai ad un altro uomo come nemico”. È doloroso, lo è per chi ha speso la giovinezza odiando dell’odio respirato, e facendo la guerra. Doloroso, sì; potrebbe essere un parto. Perché dubitare, giudicare, non credere? Perché non pensare a noi, ai nostri atteggiamenti interiori, alle nostre giustificazioni, ed alle responsabilità che possiamo augurarci di assumere?

Queste le domande che ci siamo fatti con le studentesse e gli studenti che hanno partecipato ai gruppi con le persone detenute: e che hanno raccolto anche il racconto di quel padre, offrendo

insieme i loro racconti.
Per provare a recuperare, almeno ad un certo punto, nella prova della vita, quella capacità di essere giusti: di esserlo un poco, pure se non innocenti. Consegnandolo ai figli e al futuro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


The reCAPTCHA verification period has expired. Please reload the page.