Leggendo il più recente volume di monsignor Pierangelo Sequeri, L’iniziazione. Dieci lezioni su nascere e morire (Vita e Pensiero, pp. 202, 16 euro, ebook a 10,99 euro), ci sono venute in mente due cose.
La prima è una conversazione intercorsa alcuni anni fa, su invito di Le Figaro Magazine, tra il filosofo Alain Finkielkraut e uno dei più controversi scrittori contemporanei, Michel Houellebecq. In quel dialogo, stilando una sorta di diagnosi dei mali che affliggerebbero il nostro tempo, Finkielkraut sostenne che sarebbe
venuta meno per sempre, in Francia come nel resto dell’Occidente, la fede nella vita eterna. […] Gli stessi credenti non sono più in grado di strappare alla morte il suo pungiglione velenoso».
Quanto a Houellebecq, si dice spesso che al centro dei suoi romanzi sarebbe l’esercizio di una sessualità in forme estreme, frenetiche, quasi compulsive. A nostro modo di vedere, invece, questo aspetto costituisce solo una variazione sul tema, una delle strategie – compresa la clonazione – a cui disperatamente fanno ricorso i suoi personaggi nel tentativo di superare l’umana caducità e di rendersi immortali (La possibilità di un’isola si apre precisamente con la domanda: «Chi, fra voi, merita la vita eterna?»).
Musicologo, compositore e teologo di fama internazionale, Pierangelo Sequeri insegna a Roma, presso il Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” per le Scienze del matrimonio e della famiglia. In questo suo ultimo libro, egli si prefigge di riaprire seriamente una duplice questione – quella della nascita come «iniziazione» e della morte come «passaggio» – su cui la cultura secolare balbetta e la stessa teologia sembra «piuttosto afasica».
A più riprese gli storici e i sociologi hanno sottolineato che l’esperienza della morte e del lutto viene tendenzialmente esclusa oggigiorno dal discorso pubblico. Sequeri dà una diversa interpretazione del fenomeno. Secondo Sequeri il silenzio attesta a contrario l’ineludibilità del problema. Il silenzio imbarazzato, la fuga nel divertissement, perfino la parodistica messa in scena dell’evento del morire in molti videogiochi e serie televisive
sono pur sempre sintomi eloquenti – simboli – di una rimozione inquieta dell’incidente mortale, che combatte l’inespugnabile convinzione di un destino non nichilistico della vita. In realtà, non possiamo proprio rassegnarci al fatto che la nostra vulnerabilità all’incidente che – in modo più o meno traumatico – interrompe la nostra vita, abbia il potere di deciderla.
Come se dovessimo affidare il suo senso, i suoi affetti, le sue promesse, le sue attese e isuoi desideri, ad un arresto che in un niente se li porta via: senza discutere con noi, senza una logica precisa, senza un contenuto plausibile, all’altezza di quello che perdiamo.
Sia il nascere, sia il morire segnano una radicale discontinuità: «Come può essere che io, che sono io – recita una famosa poesia di Peter Handke -, / non c’ero prima di diventare, / e che, una volta, io, che sono io, / non sarò più quello che sono?».
Non abbiamo evidenza della nostra origine né della nostra destinazione. Ma per questo
sono forse obbligato a pensare – scrive Sequeri – che l’incidentalità della morte le dà il diritto di rendere insignificante la vita? Devo davvero pensare che siamo stupidi fino al punto di inventarci una transizione della vita, che non esiste, per consolarci di un annientamento del quale saremmo certi? Siamo certi dell’interruzione, naturalmente. Siamo certi anche dell’annientamento?.
Ne L’iniziazione non ci vengono propriamente presentate delle dimostrazioni razionali dell’immortalità dell’anima, analoghe a quelle del Fedone platonico. In una cultura secolarizzata che fatica anche solo a capire il senso della presunta distinzione tra una «materia mortale» e uno «spirito immortale», «sembra necessario che gli schematismi simbolici della cultura religiosa tradizionale vengano sottoposti a una più adeguata interpretazione».
Analogamente, occorre ricordare che la «risurrezione dei corpi» annunciata dal cristianesimo
non è il ricupero della parte materiale, è la restituzione dell’essere sensibile di cui è fatto il nostro spirito. Non si tratta di un’aggiunta estemporanea, un complemento accidentale del godimento. L’umano sensibile è una qualità dello spirito: e il sensibile è il modo in cui essa si forma, si sviluppa, si avventura nel reale».
Riflettendo sul fenomeno della nascita, Pierangelo Sequeri osserva che l’apparizione sulla scena del mondo dell’«io» umano, con la singolarità-irripetibilità che lo contraddistingue, non può essere spiegata a partire da antecedenti di ordine biologico, come i tratti ereditati dai genitori o la strutturazione del sistema nervoso centrale. («Un “io” non “si fa” come quando si fa un motore o un quadro: “io”, quando si è umani, “si è”, senza spiegazione. Un “io” è una condizione nella quale sempre e soltanto ci si trova: se non si risolve nell’altro, né come differenza prodotta né come identità ricevuta, questa condizione può estinguersi? Nessuna tessitura può averla prodotta: verosimilmente nessuna smagliatura può scioglierla»).
Il secondo punto che Sequeri rimarca, dialogando idealmente con Freud e Heidegger, Jacques Lacan ed Emanuele Severino, è che l’esperienza dell’io si sporge fatalmente al di là del principio di piacere, oltre la ricerca del godimento immediato:
L’essere umano possiede la capacità di muoversi in una direzione contro-intuitiva e contro-fattuale, rispetto al puro interesse per la sopravvivenza e al puro incremento del piacere vincolato alla vitalità dei sensi e indifferente alla vita del senso».
La promessa biblica relativa a un mondo a venire in cui «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (Ap 21,4) va incontro all’ovvia constatazione che l’umana aspirazione alla «giustizia» non è esaudita nel tempo presente: «Il mondo vissuto illumina la vita come dovrebbe essere e, al tempo stesso, non la rispecchia. La singolarità dell’io che viene al mondo apre questa evidenza e questa scissione contemporaneamente. “Io” giudica la vita, la misura a fronte di un’ingiunzione e di una pretesa del suo dover essere, che non ha imparato semplicemente dall’esterno, né dall’interno della sua esperienza».
Possiamo rinunciare a tale pretesa e rimanere davvero umani? La trama dei rapporti sociali può reggere, quando i singoli smettono di opporre resistenza e si consegnano a ciò che Ernst Bloch chiamava «la radicale anti-utopia» della morte (di una morte, cioè, immaginata come un mero sprofondamento nel nulla)?
Secondo Pierangelo Sequeri, concepire la morte in questo modo denota una mancanza non solo di fede, ma di immaginazione:
“Nulla” è un’espressione di comodo, che esprime la nostra impotenza a immaginare il “Reale” in cui ogni cosa ed evento trova la sua giusta collocazione. Non ci sarebbe un mondo, non ci sarebbero organismi, non ci sarebbero ‘io’ umani desiderosi di giustizia e giustificazione. Il Nulla non ha alcun motivo per l’uscita dalla sua vuota tranquillità, né alcuna forza per produrla.