Nel primo libro si parlava infatti della miseria dell’immediato dopoguerra nel Sud Italia (anni ’50), nel secondo dell’obbligo alle nozze riparatrici (anni ’60), in quest’ultimo infine dei manicomi, piaga della nostra società fino agli anni ’80.
Una realtà paradossale, spesso sconosciuta, perché celata, fatta di terapie allucinanti, senza alcun fondamento scientifico: docce gelate, letti di contenzione, camicie di forza, sedazione forzata, elettroshock. Con i pazzi veri venivano rinchiusi anche quelli solo presunti: alcolisti, adultere, persone scomode e sgradite ai potenti, tutti immersi nello stesso calderone e resi docili dai sedativi e dalle scosse elettriche. Così, bastava poco – solo il certificato di un medico compiacente – per liberarsi di una moglie sgradita, tuttavia curata come se fosse matta con metodi arcaici e dannosi.
Pazzi veri e pazzi presunti: adultere, persone sgradite ai potenti, tutti resi docili dalle scosse elettriche
E’ questo il caso della Mutti, mamma tedesca della protagonista, Elba, ragazzina quindicenne all’inizio della vicenda, una donna fatta internare dal marito perché straniera, adultera e incinta fuori dal matrimonio, ridotta alla fine in stato catatonico dalle cure e paradigma del dolore di tutte quelle donne a cui è stata negata una vita normale in base a principi senza alcun valore né fondamento.
Ma nello sguardo di Elba, ragazzina assolutamente normale ma in manicomio perché nata e cresciuta lì, il manicomio diventa un luogo buffo, il solo che conosce e che lei chiama il “mezzomondo”, inventando soprannomi a tutti, ospiti e sanitari, e trovando, pur in quel terribile universo, giochi nuovi e anche una luce di speranza grazie alla mamma, che per lei ha inventato questa bella fiaba, per mascherarle la realtà, dopo aver affrontato il ricovero, da sana, per farla nascere.
Ma arriva infine la legge Basaglia, che chiude i manicomi, in base alle teorie della moderna psichiatria a misura d’uomo, che considerano le malattie nervose come patologie. E basagliano è il “dottorino” Fausto Meraviglia, co- protagonista del libro, un uomo normale, con pregi e difetti, istrionico, egocentrico, plateale e dongiovanni, ma d’animo generoso.
Porta infatti Elba a vivere in casa sua, come una figlia, l’unica che ha scelto, proprio lui, che non è mai stato un buon marito, né un buon padre. Anche perché la ragazza, salvata dall’amore della mamma, è una conferma vivente della nuova psichiatria, dove una sola parola d’affetto salva più dei tranquillanti. Ma il legame di Elba con Fausto rivela il bisogno di essere riconosciuti dall’altro, per sentire di esistere.
Una sola parola d’affetto salva più dei tranquillanti
Troviamo poi Fausto anziano, con un principio di Alzheimer e malato di solitudine, senza conoscere il destino di Elba, che lo ha lasciato alle soglie della laurea: lo salverà, ancora una volta, proprio l’amore.
Elba è invece una persona che si salva da sola e ha diritto di gestire in proprio la sua esistenza con libertà e amore. E di farne, solo allora, una “meraviglia”.
Come la vita, che Viola Ardone sa narrare con garbo e stile avvincente nella sua ferocia e bellezza.
Il racconto infatti a volte si fa aspro e spigoloso, triste e ingiusto, ma sempre attraente e importante e capace di suscitare l’empatia e l’umanità insita in ciascuno di noi nei confronti dei più sventurati.
La storia non deborda mai, grazie a una prosa sensibile, discreta e solidale.
Laura Cerri