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Gaza e l'”impossibile” pace

Le bandiere della Palestina e di Israele in un puzzle

Da laico nella città – Rubrica a cursa di Daniele Rocchetti
Si visita Auschwtiz, dove sono morte un milione di persone, ebrei soprattutto.
Poi nasce quasi sempre la domanda: Non succede lo stesso oggi a Gaza?
I molti problemi, le poche, tenaci speranze

Per diverse ragioni mi è capitato recentemente di tornare due volte ad Auschwitz-Birkenau. Due visite-studio di otto ore, immerso, in modo doloroso, dentro le pieghe della fabbrica dello sterminio che ha portato alla morte più di un milione di persone, la gran parte delle quali di origine ebraica. Donne e uomini, vecchi e bambini, ciascuno con il suo volto, il suo nome, la sua storia.

Mi è impossibile ogni volta che oltrepasso il cancello con la scritta “Arbeit mach frei” o salgo sulla torretta a guardare lo spazio infinito di Birkenau, dimenticare le parole dei testimoni con cui ho avuto il dono, negli anni addietro, di vivere insieme questa esperienza: in primis, Shlomo Venezia ma anche Hanna Weiss, Sami Modiano, Andra e Tatiana Bucci.

Anche stavolta con me ci sono numerosi amici. Durante la lunga giornata le parole faticano ad uscire e forse è meglio che il silenzio custodisca le tante domande che la visita di un luogo come questo porta con sé. Già alla sera però mi avvicinano in diversi e chiedono: “Non ti pare che ciò che abbiamo visto sia lo stesso che avviene in questi mesi a Gaza?”. 

La questione va presa sul serio e la risposta evidentemente (non è scontato oggi), deve assumere la complessità, oltre la logica binaria (vero spirito del tempo) che ci fa stare, senza sfumature, da una parte o dall’altra. Ricordo il fastidio dei testimoni quando nel dibattito che seguiva il loro racconto veniva posta la domanda sul conflitto israelo-palestinese. Fastidio che nasceva non dalla difficoltà a rispondere, quanto dal pericolo che – intuivano – poteva nascere dal mettere insieme due vicende incomparabili tra loro: l’unicum della Shoah (lo sterminio programmato di un intero popolo nel silenzio del resto del mondo) e il dramma di una terra – quella di Israele e di Palestina – contesa tra due popoli che hanno entrambi grandi ragioni e, insieme, grandi torti.

Giustizia, vendetta, antisemitismo

Dunque, eccomi a rispondere. Lo faccio, e mi scuso, per brevi suggestioni che andrebbero ulteriormente approfondite. 

  • E’ un errore confondere l’ebraismo con lo Stato di Israele. Un errore spesso voluto da Israele stesso che, in modo improprio, si è arrogato la pretesa di rappresentare l’universo plurale del mondo ebraico. Anche di quello in diaspora.  Lo Stato di Israele compie delle scelte che possono e devono – come per ciascuna scelta di ciascun Stato al mondo – essere discusse e pure, se necessario, contestate. Nel caso specifico, non si può non riconoscere che Israele si è infilato direttamente nella trappola di Hamas e ha avviato una punizione collettiva alla barbarica strage degli innocenti del 7 ottobre che non può essere in alcun modo giustificata. Come può essere giustificata la mattanza di civili, di donne, di vecchi, di bambini che se non muoiono per i bombardamenti e le azioni di guerra muoiono per fame? Qual è il confine tra giustizia e vendetta?
  • Non confondere l’ebraismo con lo Stato di Israele (non tutti gli ebrei sono responsabili delle scelte di Netanyahu!) deve farci avvertiti – più di quanto mi pare lo siamo – del crescente e pericoloso antisemitismo circolante dentro le nostre società occidentali. Proprio ad Auschwitz e a Birkenau si comprende che i campi sono il risultato finale di una demonizzazione e disumanizzazione iniziata molto tempo prima. E dove le parole sono state a servizio delle azioni che hanno portato alla cancellazione di un popolo.

Il 7 ottobre, l’occupazione lunga 57 anni, i coloni

  • Non ci si può dimenticare del 7 ottobre. Nel modo più assoluto. La brutale violazione sistematica dei corpi, specie di quelli delle donne, le foto ostentate di israeliani inseguiti, terrorizzati, uccisi; la caccia all’uomo nelle città del sud di Israele, uccidendo o sequestrando chiunque capitasse a tiro, vecchio o ragazzino non importava. Non ci si può dimenticare dell’uso criminale dei civili di Gaza da parte di Hamas. Né della orribile strumentalizzazione dei (pochi) ostaggi rimasti in vita. 
  • Altresì non ci si può dimenticare di un’occupazione che dura oramai da 57 anni e che impedisce ad un popolo di non avere garanzie di futuro. Occupazione che ha portato alla creazione – da parte di governi israeliani di destra come di sinistra – di colonie che negli anni si sono moltiplicate a vista d’occhio e che oggi, nei fatti, impediscono la nascita di uno Stato palestinese con una continuità territoriale che lo possa far funzionare. Basti pensare ai checkpoint, al muro, alle barriere che circondano le colonie che a loro volta circondano villaggi e città palestinesi, impedendo loro di crescere. Occupazione che impedisce il diritto più banale, la libertà di movimento nel proprio territorio, soprattutto se inserito nella Zona C dove il controllo – amministrativo e militare – è interamente in mano a Israele e dunque dove andare a scuola, coltivare la propria terra, allevare i propri animali sono considerati atti illegali.  Anche con i limitati scambi territoriali che la trattativa di Oslo aveva preso in considerazione, è impossibile trasferire 500mila israeliani dentro le frontiere internazionalmente riconosciute d’Israele. Come ricorda Ugo Tramballi nel suo blog, Yossi Beilin, l’israeliano che preparò il miracolo di Oslo, pensa che esista una sola soluzione: lasciare tutti dove sono. Gli israeliani in Palestina e i palestinesi in Israele. Ma tutti, ovunque siano, cittadini del loro stato. Perché funzioni i due popoli dovrebbero almeno rispettarsi. Per ora non se ne vede traccia.

Gaza, 5500 persone per chilometro quadrato. E a proposti di genocidio

  • Vale la pena fare memoria di cosa era la Striscia di Gaza prima dell’invasione di ottobre. Un fazzoletto di terra lungo circa 41 km, largo tra 6 e 12 km, con una superficie totale di 362 km2; lì ci vivevano più di 2 milioni di abitanti, con una densità di 5500 abitanti per km2. Per fare un confronto, in Italia la densità media è di 196 persone per km2. Se il nostro Paese avesse la densità della Striscia sarebbe abitato da un miliardo e settecento milioni di persone. Due terzi degli abitanti di Gaza aveva lo status di rifugiati. Una gran parte di loro viveva dentro gli otto campi per rifugiati dell’ONU, dal 1948. La Striscia di Gaza è stata sotto il controllo del governo egiziano dal 1948 (Nakba, prima sconfitta degli eserciti dei Paesi arabi contro una nazione ebraica di nascita recente) fino al 1967 (Naksa, sconfitta della Guerra dei sei giorni). Dal 1967 fino al 1994 è stata sotto il controllo del governo israeliano. Da questa data, la striscia è stata ceduta all’Autorità palestinese nel quadro dell’accordo di Oslo. Prima dell’invasione una piccola parte di loro usciva dall’enclave palestinese ogni giorno per andare a lavorare in Israele, ma una volta finito il turno il rientro era obbligatorio. Agli altri cittadini della Striscia non era permesso varcare i confini se non in casi estremi, come ad esempio il bisogno di cure. Lo scorso anno l’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha definito Gaza “una prigione a cielo aperto”.  
  • L’invasione di terra con le terribili conseguenze sui civili gazawi – da sempre i dimenticati della storia – non può, e lo ripeto, avere giustificazione alcuna. Eppure resto convinto – e non è questione di lana caprina – che non si possa usare il termine genocidio. Le parole hanno valore, sempre e comunque (mi fa sempre molta impressione sapere che Nakba in ebraico si traduce con la parola Shoah. Le due catastrofi non sono paragonabili ma per ogni popolo la propria tragedia è sempre la più grande). Come sappiamo, giovedì 11 gennaio, presso la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Uniti all’Aja, sono iniziate le udienze sul caso presentato dal Sudafrica, secondo il quale la guerra nella Striscia di Gaza costituirebbe un atto di genocidio contro il popolo palestinese. Si tratta in un processo complesso, dall’alto significato politico: mai la Corte internazionale di giustizia, fino ad oggi, ha condannato per genocidio nessuno stato.  A prescindere da come si pronuncerà la Corte – probabilmente ci vorranno molti anni -, si può dire che a Gaza è in corso un atto genocidario? Personalmente – ma sono in buona compagnia (si legga, ad esempio, la profonda intervista fatta a Marcello Flores, lo storico senese, uno dei più grandi esperti mondiali di Genocide Studies  https://it.gariwo.net/magazine/interviste/a-gaza-e-genocidio-che-cose-un-crimine-contro-lumanita-le-parole-per-capire-il-conflitto-26781.html) non lo credo. Genocidio, secondo la definizione data dalla Convenzione del 1948, è la distruzione parziale o completa di un gruppo etnico, religioso o nazionale. Nel caso in cui, però, c’è l’intenzione da parte di chi commette quella violenza di distruggere il gruppo in quanto tale. “Significa – spiega Flores – che non si tratta di una violenza, sia pure terribile, dovuta a motivazioni quali possono essere una guerra, una volontà di conquista, una sopraffazione di potere. Deve essere il risultato di una volontà di far scomparire dall’umanità un preciso gruppo etnico, religioso o nazionale. Evidentemente, i carnefici che stanno compiendo quella violenza ritengono che quel gruppo non possa e non debba avere il diritto di vivere. Io credo che la reazione – sicuramente sproporzionata in termini di diritto internazionale – che l’esercito israeliano ha fatto e sta facendo a Gaza, non possa essere considerata genocidio, ma possa essere sicuramente considerata un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità. Perché l’attacco e il coinvolgimento di civili sono assolutamente evidenti da tutte le documentazioni che abbiamo, anche se dovremmo analizzare meglio le informazioni che ricaviamo in modo generico dai media. Escluderei però che si possa parlare di genocidio, se non da un punto di vista propagandistico che secondo me serve a poco.”

Guardare il dolore dell’altro

  • Come se ne esce? Certo quando – da una parte come dall’altra – si smetterà di dare una giustificazione teologica al possesso della terra e alla distruzione dell’altro. Il cancro del fondamentalismo religioso ha devastato il corpo, un tempo immune, del popolo israeliano (sempre più in balia, anche per ragioni demografiche, di chi crede, ad ogni costo, alla “terra promessa”, la totale sovranità ebraica su tutti i territori tra il Mediterraneo e il fiume Giordano) e il popolo palestinese (sedotto, spesso per disperazione, da quanti invocano la Jihad e credono che “dal mare al fiume” non debba esistere uno Stato ebraico). Certo, soprattutto, se i due popoli impareranno una cosa oggi impensabile: guardare il dolore dell’altro. Tanti anni fa, mentre guidavo un gruppo di pellegrini della diocesi di Milano ebbi il dono di incontrare il cardinal Martini, da poco ritiratosi a Gerusalemme. Durante il tempo trascorso insieme, mi parlò a lungo di uno dei segni di speranza che gli pareva di percepire in quella terra lacerata (erano gli anni della seconda Intifada): la realtà dei Parent’s Circle, a cui aderiscono sia Rami Elhanan che Bassam Aramin, protagonisti del magnifico libro di Colum McCann, Apeirogon (Feltrinelli, 2023):  genitori, ebrei e palestinesi,  che hanno perso un familiare nel confitto. E’ quanto ripete con forza e profezia il cardinal Pizzaballa, certamente una delle voci più lucide di quella terra: “Il dolore tende spesso ad essere egoistico: “È il mio dolore che tu non puoi capire, è il mio dolore che comunque è sempre superiore al tuo”. La fatica allora consiste nel facilitare questo confronto inducendo ognuno a riconoscere il dolore dell’altro. Non lo dico per “buonismo” cristiano, ma perché non vedo alternative: si può uscire da questo dramma in un altro modo?”

Those who do not remember the past are condemned to repeat it” 

“Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo” è la frase del filosofo e poeta spagnolo George Santayana all’ingresso di uno dei primi blocchi del campo di Auschwitz che si visitano. 

Un monito che vale per Israele e per la Palestina. Ma credo anche per ciascuno di noi.

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