
C’è morte e morte. C’è qualcuno, anche famoso, di mondo e di chiesa, che è morto prima ancora di morire e ci sono altri che sono vivi anche da morti, perchè per loro parlano persone e libri, situazioni e drammi, immagini e sentimenti.
Tra quest’ultimi trova senz’altro posto la figura di don Tonino Bello. A più di trent’anni dalla morte, avvenuta il 20 aprile 1993, le “parabole” del vescovo che ha sempre rifiutato il titolo di monsignore, non cessano di scuotere le coscienze. Almeno a giudicare dall’enorme quantità di articoli, libri, dibattiti e convegni, ancora oggi promossi per ricordarne la figura.
I suoi testi, così letti e così venduti quando era in vita, sono ancora oggi spesso esauriti e introvabili in libreria. La sua parola, poetica ed evocativa, mai astratta, sempre costellata di nomi propri e di volti, di simboli e di metafore, ha catturato l’attenzione di tanti, soprattutto giovani. Il popolo della pace, che lo aveva avuto come compagno nel viaggio a Sarajevo, ma anche il popolo semplice, dei cristiani comuni, ha subito voluto bene ad un vescovo che, come pochi, ha saputo usare la penna per cantare le meraviglie di Dio e i dolori dell’uomo.
Molto spesso il coraggio lo si ha quando non si ha più nulla da perdere: don Tonino è stato invece capace, anche a costo di essere incompreso, di gridare – da vescovo – sui tetti l’urgenza di costruire una terra più vicina al sogno di Dio. Costi quel che costi. Aveva dunque ragione padre Turoldo quando, nell’introdurgli una raccolta di lettere, scrisse: “Caro fratello vescovo vorrei dirti quasi paradossalmente: non inoltrarti troppo su queste strade dei poveri. Vedrai quanto dovrai soffrire! Prima, perchè i poveri quando sono presi tutti insieme, quando sono tanti, fanno veramente paura: ti producono dentro un’angoscia di cui non guarisci più. Poi, perchè vedrai la gente come ti parlerà dietro, come ti farà l’anima a brani. Quanti ti diranno di non esagerare, di essere prudente, di non lasciarti ingannare. Ti grideranno dietro: ‘Tanto più che sei vescovo’ rovesciando precisamente al completo la prima e fondamentale verità, perchè così dovrebbe essere: ‘proprio perchè sei vescovo‘.”
Don Tonino (termine che terrà con orgoglio anche quando sarà nominato vescovo) nasce nella cittadina salentina di Alessano, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca, il 18 marzo 1935. Figlio di un maresciallo dei carabinieri e di una donna semplice e di grande fede, trascorre l’infanzia in un paese ad economia agricola impoverito dall’emigrazione. Assiste alla morte dei fratellastri e del padre.
Ragazzino sveglio, finite le elementari, è mandato, per poter continuare gli studi, in seminario: prima ad Ugento poi a Molfetta. Frequenterà l’ONARMO (opera nazionale assistenza religiosa e morale degli operai). L’8 dicembre 1957 è ordinato sacerdote e dopo un anno sarà nominato maestro dei piccoli seminaristi. Nei successivi diciotto anni sarà capace di mediare tra severità del metodo ed esigenze giovanili.
Alla fine degli anni Settanta è nominato parroco di Tricase: l’esperienza in parrocchia gli fa toccare con mano l’urgenza dei poveri, di chi sta ai margini. Ordinato vescovo il 30 ottobre 1982, fa il suo ingresso nella diocesi di Molfetta – Ruvo – Giovinazzo – Terlizzi il 21 novembre dello stesso anno. E subito lascia intendere la necessità di rimettere il Vangelo al centro della vita cristiana. Rimane famosa la sua definizione della “chiesa del grembiule”, di una comunità cristiana cioè che sa chinarsi sui piedi degli uomini senza tralasciare di analizzare in profondità le cause delle nuove povertà.
Nel 1985 fu chiamato a succedere a Mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nella guida di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace. Profondamente radicato sulla Parola, senza preoccuparsi di voler piacere a tutti, ha cercato di lasciarsi guidare dal vangelo “sine glossa“. Con una delle sue originali ed appropriate intuizioni linguistiche (care poi anche a papa Francesco) don Tonino ha tracciato le linee di una spiritualità che amava definire “contemplattiva“. Riuscendo, in questo modo, a trovare accoglienza e comprensione anche presso persone di culture e formazione ideologica differenti, tanto da essere apprezzate oltre i confini, troppo spesso perimetrati, della chiesa.
La beatitudine evangelica degli operatori di pace diventa ben presto il discrimine per valutare e promuovere azioni concrete, mai approssimate, sempre frutto di una lettura attenta della realtà. In questo senso vanno lette le sue prese di posizione nel corso di conflitti armati come quelli del Golfo e della ex-Jugoslavia, l’organizzazione della protesta contro l’ipotesi del trasferimento degli aerei F 16 nella base di Gioia del Colle.
Lotta contro il tentativo di sottrarre migliaia di ettari di terreno a contadini ed allevatori della Murgia barese per farne un enorme poligono di tiro, aderisce con passione al cartello “Contro i mercanti di morte” che portò nel 1990 all’approvazione della Legge 185 che regola in maniera restrittiva e democratica il commercio delle armi italiane (quella che oggi stoltamente si cerca di porre in discussione). Pone poi in atto tante altre azioni nella direzione dell’affermazione e della crescita di una cultura di pace.
Molti dei gesti che hanno accompagnato la vita di don Tonino partono da una condivisione autentica delle contraddizioni e delle miserie del tempo, riescono a leggere nella profondità e nella trasparenza degli avvenimenti della micro come della macro storia, ma al contempo sono capaci di indicare una strada da seguire.
L’accoglienza, in episcopio, per un lungo periodo, di famiglie di sfrattati, l’orgoglio con cui esibiva il pastorale di legno d’ulivo intarsiato, regalatogli dai contadini della sua terra, il desiderio di “avere a che fare con i poveri con nome, cognome e codice fiscale” e “profumare di popolo”, erano i segni tangibili di una verità vissuta prima ancora che proclamata.
Si capisce quindi perché don Tonino era amato dai piccoli e creava fastidio ai grandi: della politica, della cultura, perfino della Chiesa. Nel corso del tempo, don Tonino è diventato familiare per una serie di gesti probabilmente “normali” per un cristiano delle origini ma che, nella tiepidezza del tempo presente, hanno corso il rischio di essere letti e interpretati come “scandalosi” e “inopportuni” per un credente, soprattutto se vescovo. Quando gli chiesi se non gli dava fastidio essere considerato un vescovo “anomalo” mi rispose di no. E’ che “bisogna poi vedere che cosa significa essere anomalo. Introdurre in casa i poveri per farli dormire d’inverno, è anomalo per un vescovo, o non è anomalo il contrario?”
Ricordo bene l’ultima conversazione avuta con lui. Era segnato profondamente dal tumore che lo aveva aggredito e devastato. Gli chiesi che cosa stava sperimentando durante quel difficile periodo di prova. Mi ha risposto così: “Vedi, nel duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta, donato alcuni anni fa da uno scultore del luogo. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino la scritta: “collocazione provvisoria”. La scritta, che in un primo momento avevo scambiato come intitolazione dell’opera, mi è parsa provvidenzialmente ispirata. “Collocazione provvisoria”. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Ed è una croce che dura da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, te l’assicuro, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio. E poi, in quei mesi di dolore che mi hanno permesso di riassaporare il valore della ferialità, ho portato con me una frase di Isaia che dice: “Non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sul palmo delle mie mani”. L’ho sperimentato: anche se non sempre riesci a decifrarla, la tenerezza di Dio avvolge la storia di ogni uomo.”
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Rocchetti