Accanto alle esperienze di aborto

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Custodire l’umano – Rubrica a cura di Ivo Lizzola
Non sostenere l’essere per la nascita.
Ritessere la capacità di inizio.
Interruzioni e rigenerazioni

La vita e il suo peso

L’esperienza dell’aborto, dell’interruzione della gravidanza, irrompe nelle vite, nelle biografie e nei corpi di tante donne, e di alcuni uomini: e crea sospensioni, disorientamenti, fratture, e bisogni di riconciliazione e di nuovo inizio. Queste interruzioni sono volontarie o involontarie, obbligate o necessarie, sono vissute nell’incertezza o nella convinzione, nella sofferenza o nella pacatezza, si vivono nell’accompagnamento o nella solitudine. Sono esperienze che vengono da resistenze o della resa. In ogni caso le tracce restano a lungo, profonde, e riemergono nel tempo a volte improvvise.

Le tracce restano a lungo, profonde, e riemergono nel tempo a volte improvvise

Credo sia importante e che sia giusto pensare insieme queste esperienze: insieme, come articolazioni ognuna unica e complessa, di una profonda esperienza dell’umano, della donna in particolare, oltre che delle sue relazioni vitali. Si tratta dell’esperienza dell’origine, dell’incontro delicatissimo e non scontato con l’essere-per-la-nascita di ogni persona, di ogni donna, e delle relazioni tra le donne, tra le donne  e gli uomini. Tra noi.

Non esiste un’unica storia d’aborto, non ne esiste una tipica. Ne esistono tante, tante quante sono le donne che lo vivono, che lo scelgono o che lo subiscono. Anche per chi lo decide non vi sono ragioni uguali. Anche se vi possono essere simili crude realtà quotidiane che rendono molto difficile la maternità. Per alcune sentita come quasi impossibile, non immaginabile.

La vita del feto e la vita della madre, della donna sono vita dalla vita e vita della vita. Vita dalla e nella relazione. Certo ogni corpo di vita ospita anche il peso, a volte il senso di insostenibilità della vita stessa, e della vita altra. Questo è umano, molto umano. Le esperienze della debolezza e della vulnerabilità attraversano il cuore dell’esistenza di tutti noi.

L’oblio delle domande che contano

Abbiamo costruito tante e diverse forme di controllo, di sostegno, di dominio sulla vita; alcune paiono buone e utili, come le cure e le terapie. Ma quante di queste servono solo ad evitare ed eludere le domande profonde sul nascere e sul morire: sulla nascita, sulla nascita interrotta, sul finire, sul finire estenuato o interrotto? Quante sono un “rifugio” utile per eludere la riflessione, anche l’incontro: quello che è necessario per provare a cogliere un senso, a condividere e tenersi in prossimità negli attraversamenti verso il nascere ed il morire? Come si può, allora, orientare a un decidere che sia scegliere promuovendo la maturazione di un cammino, di parole condivise ed ascolti, di ricerca d’affidamento?

L’umano non è semplicemente gettato-nel-mondo: prima ed oltre l’essere-per-la-morte (secondo l’espressione heideggeriana) è essere-dato-alla-luce (come indica Maria Zambrano). Occorre accogliere, riprendere, diffondere l’invito ad una lettura della nascita, come dimensione decisiva dell’avventura umana. Prezioso è un libro che la indica e la segna: Filosofia della nascita, di Silvano Zucal.  

Molto pensiero femminile contemporaneo, da Hannah Arendt a Maria Zambrano, pone al centro dello statuto esistenziale dell’umano l’essere-per-la-nascita. E segna una traccia preziosa e particolare sul nascere, che si rivela differente rispetto a quella bioetica. 

L’approccio bioetico per quanto sia di carattere generale (discorso assiologico o comunque sui principi generali dell’etica da applicare alle questioni della vita), speciale (ovvero dedicato alle grandi questioni come l’aborto o la sperimentazione genetica) e, infine, clinico (esami dei casi clinici problematici per orientare la prassi medica) non si soffermerà mai sul senso dell’evento-nascita.   

E Claudio Tarditi, ripreso da Zucal, precisa che circa

il tema della nascita, la bioetica di occuperà dunque di tutte le questioni ad essa correlata – contraccezione, interruzione di gravidanza, aborto, indagini prenatali, ecc – ma sempre mantenendo il proprio carattere applicativo e normativo: in altri termini, lo statuto epistemologico della bioetica individua il suo campo d’indagine nei principi e nei valori che determinano le scelte dell’individuo nei confronti delle possibilità che il progresso tecnico-scientifico gli offre, escludendo tuttavia de jure qualunque riflessione sul senso esistenziale e ontologico del nascere in quanto tale.

La filosofia della nascita cambia lo sguardo. L’evento nascita è considerato come esperienza dell’accesso all’umano, è sorgente ed è inizio. L’”essere-natali” richiama al creare spazio vitale per la nascita, e subito rivela la dimensione relazionale e dialogica della nascita. Come pure la sua unicità, irripetibilità, e certo anche la vulnerabilità, l’accoglienza ricevuta, il riconoscimento. Mostra che è spazio lasciato in un corpo. 

Si tratta della prima, costitutiva relazione. Chiede una maturazione, una gestazione, il mettere al mondo, il dare alla luce. “Ogni uomo è allora dato davvero a se stesso, soltanto grazie all’essere messo al mondo “da altri”, dalla madre in primis e dal padre”.  Generato da altri e non solo frutto biologico d’un atto riproduttivo. Se prima vigeva un legame come unione, ora si dà un legame  come relazione Io-Tu, come riflette Martin Buber.

Essere-per-la-nascita incontra, provoca e lascia a volte anche cammini interrotti, che poi si continuano a portare con sé. Come un non ancora, come un già dato e lasciato. Come una gravidanza interrotta. Così è la vita, la vita è anche questo: lasciare il non ripetibile, o perderlo. Resta l’attesa, con una nuova solitudine, resta l’enigma doloroso e il cammino del nuovo, faticoso.

La filosofia della nascita è sempre, come sostiene Carla Canullo, filosofia della maternità. 

Inaspettatamente e in modo sorprendente la vita solita e normale non è più la stessa è nostra ma non è più nostra (…)all’inizio siamo noi, sono io [madre] a sentir vivere la mia carne, a viverla e sentirla come diversa quasi che il corpo […] avesse ‘preso vita’. Così, la vita del corpo diventa una nuova vita nella carne; una vita che non è più la stessa anche se niente, nel corpo che gli altri guardano, si vede o si coglie. Non si vede, cioè, la sorpresa dell’impossibile, di una nuova vita: l’inaudita novità di qualcuno che arriva in noi. 

Il corpo inizia a rispondere alla soprese e muta. Freme  e geme: non è questa una esperienza di pace, è anche esperienza di lacerazione il cambiamento. È ferita “nel nostro proprio” afferma Canullo:

scoprire che è nostra non come possesso ma come qualcosa che ci è donato e dato affinché porti frutto e si dilati. Questo ferisce, ossia scoprire […] che ciò che è nostro ci è affidato in custodia perché porti frutto. 

In una sovrabbondanza che deborda. Una vita sorpresa dall’altro, un invito a lasciare che sia. Non è tanto questione di coraggio dare alla luce un figlio, forse più semplicemente si tratta di “rispondere alla spirale di vita che ci avvolge e che in noi e con noi continua a generare”. 

La fatica di accogliere la nuova vita

A volte rispondere può far paura, a volte ci si vuol sottrarre del tutto, sentendo svelata la propria nudità, la propria vulnerabilità. E ci lascia allora compressa la spirale, nel timore dell’energia che si può sprigionare, o nel presentimento del senso di incapacità, o pensando al rischio di dover abbandonare, o di sospendere ruoli, stabilità, progetti. Già si fatica a “prender carico“ della propria vita!

“Di fronte a ciò che ci chiama (…) non è scontato seguirlo, accoglierlo: occorre impararlo”. Certamente si può riuscire, se ci si affida, se lo si condivide, e se allora lo si desidera. Ma a volte si fatica, non si sente che può essere il tempo; e si incespica, non si riesce, e si rinuncia. Non è scontato, e certo non è semplice sentire e maturare in sé l’umano come affidamento e responsabilità. A volte è questa la più difficile gestazione: specie se è ancora tutta da maturare dentro di sé, e con il compagno, e nel proprio mondo di vita.

Zucal nota che la tentazione della filosofia di rimuovere la nascita “e tutto ciò che essa implica come dimensione satura di senso” arriva fino al cuore della contemporaneità. E così si smarriscono dimensioni di assoluto rilievo esistenziale:

la vivacità, il senso della corporeità, l’imprevedibilità degli eventi futuri, la genealogia femminile (non a caso determinante nel mondo ebraico) e – soprattutto – il costante rinnovamento della vita comune”.   

Chi viene al mondo è un inizio, è il nuovo. Origine, ancora, nel corpo di una donna; e comunque la nascita, il parto sono eventi dolorosi. E segnati dalla fragilità, quindi dal bisogno di cura, di vicinanza tenera. Di senso del dolore e della prova, di dedizione e sororità e fraternità. Si è nudi e in mani d’altri nascendo, generando e morendo. E già questo si fatica ad ospitarlo nella nostra società “senza dolore”. 

Si è nudi e in mani d’altri nascendo, generando e morendo

 I cammini verso la nascita a volte si interrompono. Lasciando segni e nostalgie profondissime. Anche il senso di una lacerazione nei confronti della propria nascita, del proprio essere nati da nostra madre, dal corpo di una donna.

L’interruzione di una gravidanza è l’interruzione di un risalire alla propria nascita, all’essere nata. All’essere nato, per quel compagno, che prova una presenza amante e una compagnia. Il filo che si spezza, per scelta o per perdita, è sempre un filo teso in avanti verso il possibile e il nuovo, e indietro, verso il proprio essere nati. Essere per la nascita. Questione di libertà.

L’essere per la nascita è nella tenuta di questi fili. L’interruzione, anche quando è decisione, è non tenerli, perderli o smarrirli. È qualcosa di profondo, è questione che resta. Molto al di là del diritto e di un gioco semplice di libertà tra possibilità. Questa profondità va ascoltata e rispettata.

Legge, diritto, filosofia, teologia non bastano

Spesso l’interruzione della gravidanza viene letta, e ridotta, dentro le categorie del diritto. Se per diversi aspetti questo è legittimo, e a volte necessario, occorre tenere presente ciò che Simone Weil rileva circa il diritto. Il riferimento al diritto inserisce presto la dimensione della forza,  e della separazione. Elegge il soggetto come soggetto di diritto, distinto e alzato di fronte ad un altro soggetto di diritto.  Il diritto nasce invero sempre da un’obbligazione: quella che muove altri a riconoscere, a promuovere, a osservare.

Quelle che si muovono nelle storie di gravidanza e di interruzione di gravidanza sono  esperienze e dimensioni delicate del vivere, che non sono contenibili negli argini del diritto e della biomedicina tecnologica, o negli schematismi del giudizio della filosofia e della teologia. È un’eccedenza da ascoltare e magari da incontrare in quelle che Paul Ricoeur, in un’intervista sulle scene della cura in cui si prendono decisioni sul vivere e sul morire, chiama “cellule del buon consiglio”. 

Un segnale interessante: la diminuzione degli aborti è doppia rispetto alla diminuzione delle nascite

Un dato interessante degli ultimi anni è quello della diminuzione delle interruzioni di gravidanza. Ovunque, con un rilievo particolare in alcune regioni. Mentre in altri paesi europei gli aborti sono molto più frequenti, fino al doppio dell’Italia. La riduzione delle interruzioni è doppia rispetto alla riduzione delle nascite. I dati si prestano certo a molte interpretazioni, possono aprire a molte riflessioni: circa il ruolo della contraccezione (qualcuno non la considera granché rilevante), sulla consapevolezza crescente nelle coppie, specie giovani attorno al valore ed all’accoglienza della vita, attorno alla scoperta di ”essere per la nascita”.

Quanti aborti, della miseria e delle speranze inaridite, nei tempi passati, ma anche nell’oggi, quanti dell’obbligo e della vergogna, della solitudine e del corpo fragile. Come tante sono le sorprese della nascita accanto a sfinimenti o a fallimenti. Quanti i timori e gli strappi. Quanta misericordia per i feti e le vite non nate, e quanta misericordia per le donne ferite nei corpi e nelle anime. Quanta vita dolente e mancata, senza respiro o non sbocciata; quanta vita ripresa, riparata, e abbracciata, tra sospiro e respiro. Vita non innocente, ma ancora capace di inizio.

L’essere-per-la-nascita in ogni vissuto unico di aborto resta una dimensione di vita da ritessere,  da riaprire, da rigenerare in sé e nelle relazioni per ogni donna, e per ogni uomo che la accompagna, che la ama e la rispetta. Per ogni donna e uomo del suo mondo della vita, quello che ha cura di lei (e di loro). Quei fili tesi e fragili in avanti e indietro vanno ripresi, riannodati, ripercorsi in cammini nuovi, riscoperti. Essere grazie alla nascita ed essere aperti alla nascita, generativi, sarà “tornare a nascere”, a riscoprire sé, e il proprio corpo, la propria vita, la propria storia nell’origine ed all’origine. Originale ed originaria. Certo, questo chiederà altra gestazione, nuova tensione d’attesa vulnerabile, sorpresa per la rigemmazione dell’accoglienza, dell’affidamento,  delle responsabilità e della condivisone.

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