Mi capita spesso di ragionare con amici attorno alla situazione di crisi in cui oggi versa la vicenda cristiana: chiese semivuote, frattura della memoria, difficoltà a rendere pertinente il messaggio di Gesù per le donne e gli uomini del nostro tempo. Con una consapevolezza che emerge nei più: ciò che sta accadendo non è una parentesi, è uno scuotimento radicale, che tocca nel profondo. Che non lascerà come prima. E dunque cosa fare?
Un amico mi suggerisce un’azione: “potare”. Quello che stiamo vivendo è un’opportunità unica. Bisogna smetterla – come Chiesa – di portarsi sempre dietro tutto. Di sentirsi indispensabili sempre, ad ogni costo. Occorre discernere, scegliere e custodire l’essenziale della fede cristiana. Dunque: togliere quello che abbiamo confuso come prioritario e necessario ma che non lo era. Potare per dare evidenza a ciò che conta davvero, custodirlo e farlo crescere.
Anni fa mi capitò di incontrare Maurice Bellet, un nome che, immagino, dice poco ai più. Eppure Bellet – prete, filosofo, teologo – è stato uno dei più lucidi e raffinati interpreti della sfida che la modernità pone alla fede cristiana. Una sfida che pare rendere la Chiesa incapace di connessione con la vita delle persone, specie le più giovani e dunque apparire nella cultura umana come la rimanenza di un mondo che si disfa.
La quarta ipotesi sul futuro del cristianesimo è un testo pubblicato in Italia da Servitium nel 2003 dove Bellet ragiona sul futuro della Chiesa che egli riassume in quattro possibili parabole. La prima è la sua scomparsa pura e semplice, senza clamore, una morte per consunzione. La seconda è la sua dissoluzione, la trasformazione definitiva in “religione civile”, in un insieme di valori morali, senza la novità dirompente, la forza rivoluzionaria del Vangelo. In questa seconda ipotesi, Gesù è considerato un maestro spirituale fra i tanti, non di più. Nella terza ipotesi, il cristianesimo continua: si tenta di conservare, restaurare, adattare, conciliare chiusure reazionarie e spinte progressiste, rinunciando, però, senza volerlo, alle domande radicali sul senso della vita e della morte. La quarta ipotesi, che è quella scelta da Bellet, prevede un altro scenario: vi è qualcosa che finisce inesorabilmente ed è un sistema religioso, debitore, più di quanto si pensi, di un modello di società nato con la prima età moderna, tra Cinque e Seicento. Un mondo finisce e qualcos’altro nasce, grazie alla novità del Vangelo.
Ma questo tempo inaugurale, aurorale, richiede coraggio e creatività, il coraggio di abbandonare vecchi schemi e vecchie strutture e inventarne di nuove.
“L’Evangelo – scrive Bellet – “può apparire come evangelo, cioè la parola, appunto, inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l’evangelo è vecchio… Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla cronologia; forse la ripetizione può essere ripetizione dell’inaudito, così come, dopo ogni nascita di un uomo è una ripetizione banale e, ogni volta, l’inaudito.
È tempo, dunque, di grande immaginazione. Perché non è il Vangelo a essere messo in scacco ma, piuttosto, la modalità con la quale noi cristiani fino ad ora lo abbiamo vissuto e comunicato. Non è la fine della fede ma di una certa fede. E forse, anche se oggi a noi non lo pare, è una fortuna. Ecco perché siamo chiamati a discernere tra sostanza e forma, tra consuetudini e verità, come un pellegrino che deve compiere un lungo cammino e che deve mettere nella sua bisaccia tutte e solo le poche cose essenziali. La Parola, la cura liturgica, la formazione, la costruzione di una chiesa di popolo. Che abbia il suo centro nella vicenda di Gesù di Nazareth. Nella sua umanità, il vero tesoro prezioso che la Chiesa ha il compito di consegnare alle donne e agli uomini del nostro tempo.
Per questo il libro che avete tra le mani è davvero prezioso. Don Davide Rota, amico carissimo che con sapienza ha accompagnato per molti anni il cammino delle ACLI di Bergamo, mostra, in una lettura che intreccia esegesi e sguardo spirituale, il cuore della vicenda cristiana, la sua differenza radicale: la passione, morte e resurrezione di Gesù.
Mentre lo leggevo mi tornava alla mente il dibattito che si è svolto nei mesi scorsi sul quotidiano torinese La Stampa . Ad avviarlo (forse suo malgrado) è stato un testo (peraltro non integrale) dell’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, già pubblicato sul numero di giugno della rivista “Vita e Pensiero” dell’Università Cattolica. La preoccupazione che muoveva l’articolo (contestato poi da Vito Mancuso) aveva come focus il destino della fede cristiana e della Chiesa di fronte alle sfide del tempo presente. L’incipit non lasciava dubbi:
Come sarà la Chiesa fra dieci, venti, trent’anni? Come dobbiamo ragionare di fronte ai numeri della partecipazione religiosa in forte calo o alla notizia di intere parrocchie che vengono cancellate?
La disanima è lucida e sincera. La Chiesa – minoritaria e in forte invecchiamento – corre il rischio di essere un’organizzazione sociale che si china sui poveri incapace di profezia che la renda protagonista, insieme ad altri, di progettare una società più giusta, più equa. E, soprattutto, corre il rischio di non essere più una risorsa spirituale per il nostro tempo.
Viviamo un cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità. I giovani chiedono proposte alte.” Con un pericolo incombente: “credo che molti cristiani non sentano più l’urgenza o la bellezza di annunciare e testimoniare Gesù Cristo agli altri. Credo che in maniera sottile molti cristiani facciano proprio il nichilismo contemporaneo o, se volete, quella forma di nichilismo che è l’assoluto relax, il relativismo. Una cosa vale l’altra. Ma io non sto nella Chiesa e non sono cristiano se una cosa vale l’altra. Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo. Chiedo perdono, ma per meno di questo io non riuscirei a essere cristiano.
Ecco l’esercizio, e soprattutto il compito, che ci suggerisce don Davide. Tornare a Gesù di Nazareth (“vere homo et vere Deus”) perché è solo nella sua umanità che noi vediamo il Dio cristiano. E fare i conti con l’esito – paradossale e scandaloso, uno scandalo a cui ci siamo oramai troppo abituati – della sua vicenda umana che termina sulla croce. Incrociare la passione, morte e resurrezione significa leggere la vita di Gesù con la chiave di ciò che era il suo vivere: un dare la vita per gli altri fino alla fine. Trasformare lo strumento della vergogna (“maledetto appeso al legno”, Dt 21,22-23) in una via di gloria, direbbe l’evangelista Giovanni, perché via dell’amore: l’amore di chi non arriva neanche a difendersi perché non vuole fare il male che altri hanno fatto a lui. L’amore che è più forte della morte.
Non sarebbe uno straordinario messaggio di vita buona e autentica da raccontare, con la vita anzitutto, alle donne e agli uomini del nostro tempo?