Carcere. Violenza dentro e incomprensione fuori

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Carcere. Violenza dentro e incomprensione fuori

Da laico nella città – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
A parlarne, nei giorni scorsi, è stata la grande stampa, dal Sole24ore fino al Post: a Trapani 25 agenti della polizia penitenziaria del carcere sono indagati per i reati di tortura, abuso di autorità e falso ideologico per una serie di violenze ai danni dei detenuti: 11 sono stati messi agli arresti domiciliari e 14 sono stati sospesi dal servizio

I fatti erano stati prima denunciati dai detenuti stessi e poi, a indagini avviate, erano stati anche registrati dalle telecamere di sorveglianza installate nel carcere. Il procuratore capo Gabriele Paci ha detto che “in questa sorta di girone dantesco sembra di leggere parti dei Miserabili di Victor Hugo”. A volte, i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci di acqua mista a urina e praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile.

Nel delineare lo scenario, Il procuratore ha parlato anche dello stato di degrado dell’istituto e dello stress generale accusato dal personale di polizia penitenziaria, precisando però che «questo non legittima assolutamente le violenze».

L’episodio di Trapani ha riportato all’attenzione un luogo – il carcere – sempre più, e non solo fisicamente, posto fuori dagli occhi e dalla consapevolezza dell’opinione pubblica, peraltro convinta della necessità che la pena debba infliggere sofferenza. Contrariamente a quanto è scritto all’articolo 27 della nostra Costituzione:

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. 

Anche molti cristiani – che ascoltano computamente il vangelo di Matteo 25 – venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuto a trovarmi – sono in preda alla furia giustizialista che invoca il pugno duro, il carcere duro, le leggi dure. 

Troppi detenuti. Poliziotti insufficienti. Ottanta suicidi

I più dimenticano la drammaticità del carcere oggi: in Italia i detenuti sono 15 mila in più rispetto alla capienza, mancano più di 18 mila poliziotti. Dunque sovraffollamento oltre ogni limite accettabile, chiusure dei detenuti nelle celle invece che sorveglianza diffusa, dilagante disagio psichiatrico come causa ed effetto delle condizioni penose, uso e abuso spregiudicato di psicofarmaci, carenza cronica di personale della polizia penitenziaria che soffre anche di inadeguata formazione, ambienti inadatti e squallidi. Fa impressione anche il numero dei suicidi: più di 80 da gennaio in poi quelli tra detenuti e 7 tra gli agenti.

Fare finta di niente, alimentare parole sconsiderate come quelle del sottosegretario alla Giustizia Delmastro, capace di provare “intima gioia” nel far “sapere ai cittadini come non lasciamo respirare” chi è assegnato a regimi carcerari duri, è solo fingere di dimenticare – spesso per bieca propaganda –  che la certezza della pena non significa togliere la dignità ad un essere umano, che il carcere non è vendetta sociale ma piuttosto recupero sociale. Come ha scritto Dostoevskij: “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Se così è, e ne sono convinto, in Italia non siamo messi molto bene.

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