I peccati in piazza

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Trionfa la “moda” di parlare pubblicamente delle proprie magagne.
Il peccato è diventato euforico.
Una riflessione in rapporto al sacramento della confessione

Ci si vanta di essere violenti, di rubare al fisco, di vivere una sessualità allegra…

Va di moda mettere in piazza i propri peccati. I più vari e i più inconfessabili. Si legge e si sente raccontare di gente che si vanta di essere violento e reattivo, novello Lamech, gente che si vanta di “fregare” il fisco, altri che esibiscono con orgoglio la loro capacità di “dire pane al pane e vino al vino”, di dire quello che si pensa a prescindere da sofferenze che si possono provocare. C’è un esercito di donne e uomini che esibiscono o permettono che sia esibita la loro, diciamo così, allegra vita affettiva.

Recentemente, l’attore Hugh Grant, in rapporto al suo ultimo film “Heretic” ha affermato: «Ho scoperto il baratro dei cattivi e dei sadici. Sono diventato come loro»”.

Il peccato è diventato euforico. Si moltiplicano le interviste – leggo spesso quelle pubblicate dal Corriere – nelle quali si procede ad allegri spogliarelli psicologici.

Forse non è solo esibizione

Intanto è noto che la confessione – la confessione come sacramento – è in crisi. E mentre la confessione è in crisi, si sviluppa, in maniera spettacolare, la mania di mettere in piazza le proprie piccole e, spesso, grosse e vergognose debolezze.

Mi domando se, dietro questa mania del peccato in piazza, non ci sia soltanto la voglia di esibirsi, ma, almeno qualche volta, non si nasconda anche un segreto desiderio di essere perdonati. Sono peccatore, lo riconosco, ve lo racconto. Mica vorrete accanirvi contro una reo-confessione così spettacolare, detta, scritta, pubblicata, data in pasto a tutti. Visto che io sono stato così generoso nel dirvi tutto, voi, per favore, cercate di non infliggetemi altre punizioni, oltre a quello che mi sono già inflitto io. Io sono in debito, voi siete in credito e siete obbligati a perdonarmi.

Tra l’altro, mi sembra che si insinui silenziosamente, in questo fenomeno, un altro “dato” decisamente sorprendente. Si sa che l’evoluzione del sacramento della confessione ha conosciuto il passaggio da una forma pubblica e non reiterabile per i peccati più gravi (apostasia dalla fede, omicidio, adulterio) dei primi secoli a una forma “privata” e reiterabile a partire dall’VIII, IX secolo. Oggi queste moderne “confessioni” sono rigorosamente pubbliche e riguardano, prevalentemente, dei “peccati” importanti. Non si dice, infatti, in una intervista del Corriere che si è mangiato di nascosto la marmellata. 

Così, forse, si dovrà parlare, oggi, più di una antropologia che di una teologia della confessione. In altre parole, forse l’uomo ha bisogna di confessarsi, prima ancora che glielo dica il Vangelo. 

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