Vivere è attesa di bene, scrive Simone Weil, che resta anche se tradita o delusa. Vivere a volte è prova e smarrimento; allora si fa in cerca di parole e di gesti sui quali appoggiare narrazioni nuove e nuovi inizi. Il sapere, ed anche il sapore del vivere, si fa nelle comunità, si fa nelle case che accolgono e tra le vite che cercano vita. Specie quando le storie personali sono forzate in “torsioni”, o quando vivono fratture o sfinimenti, allora occorre di nuovo apprendere a vivere: ad incontrarsi, a muoversi, a costruire.
i corpi e i sogni vivono nelle vite quotidiane, nelle vite che si incontrano, che si accolgono
Chi vive naufragi esistenziali è importante viva un appoggio e un approdo per la sua prostrazione, perché la deriva si faccia passaggio che lo porti a vivere non da naufrago ma da navigante. Pure provando un poco l’esilio, oppure l’esodo.
Occorre recuperare l’attesa nei corpi, e la pratica dei sogni: i corpi e i sogni vivono nelle vite quotidiane, nelle vite che si incontrano, che si accolgono, che un po’ si fanno via via vita comune.
Allora la dignità e una certa fierezza per la strada fatta nella vita dei giorni, nella vita quotidiana, come il senso raccolto nel corso dell’esperienza diventano importanti, da riconoscere e consolidare.
Nella vita quotidiana si appoggia la domanda “dove nasce quel che nasce?” Si appoggia in passaggi delicati impastati di corpi, di esitazioni, di mancati respiri. Piano nasce il senso di aperto mentre ci si sente afferrati dal vuoto. E il confidare dopo il tradimento, la cura dopo l’offesa.
Dove nasce quel che nasce? Corpo a corpo, sogno a sogno.
Le comunità spesso si radicano come riserve d’acqua e di futuro in terreni difficili
Nasce nella vita quotidiana delle comunità dei contadini di Tomas Muntzer che sognavano le prime comunità cristiane degli Atti degli Apostoli; nasce nelle trame di vita raccolte attorno a Bartolomé de Las Casas nel Chapas. E nasce giorno dopo giorno nella vita della prigione di Robben Island tra Mandela e alcuni dei suoi e alcune delle guardie. Nasce nelle vite quotidiane, nel gesto feriale di tanti dei giusti disseminati nella storia dei conflitti e delle oppressioni del mondo.
Le comunità spesso si radicano come riserve d’acqua e di futuro in terreni difficili, e per persone difficili e in difficoltà. A volte sono improbabili ed osano, a volte solo un po’ fuori dal tempo, altre volte vedono vivere insieme nemici, altre ancora vedono gli inaffidabili darsi regole condivise. A volte han forme un poco “storte” o strane, o soltanto molto diverse.
Ma chi ha detto che il lichene è meno bello della rosa di maggio? Quando la vita, il suo racconto, la sua forma resiste o cambia, e cerca alleanze e prende colore, quando si trasforma e si adatta, e lo fa creando altro, è comunque meraviglia e speranza, sorpresa e bellezza. Quella del lichene.
Nella vita quotidiana delle comunità compaiono licheni. La vita usa piccoli spazi, momenti e lentezze, forti ripetizioni e l’occasione di fessure, anche di incontri. La vita quotidiana è tessitura e chiamata, indicazione e coltivazione. È anche disvelamento e lenta scoperta, può farsi annuncio ed anche provocazione. Nella vita quotidiana le prospettive diverse si tendono, e i conflitti prendono dimensione, o si contengono e vivono. La giustizia e la cura si obbligano alla mescolanza: corpo a corpo, sogno a sogno. Annuncio e provocazione, o forse profezia.
Si sta nelle comunità per prendersi cura e per essere cura, perché si è rispettati se non si può dire e perché si ha da dire. Si vive malinconia e rabbia, sofferenza e silenzio, ci sta anche il “non ce la faccio più”; e si vive la calma e l’ascolto, la liberazione e il rispetto: anche la dignità. Il riconoscimento del poter essere quel che si è, in una propria possibilità ed anche in una propria grazia, muovono a passi ed anche a risonanze. A qualche legame.
Si sta nelle comunità per prendersi cura e per essere cura, perché si è rispettati
E così nella comunità, nei suoi giorni feriali non ci si sente soli, ci si sente di qualcuno, e ci si porta nella testa ed anche nel cuore. Ci si scrive, a volte anche cose buone: “ti scrivo perché i miei occhi rinverdiscono quando ti pensano”. Ci si parla, ci si ascolta, perché così ci si aiuta a nascere ancora “come germogli di consapevolezza che, via via, non è più così amara, ma un po’ luminosa” come annota la mamma di Ibrahim.
Le donne e gli uomini a volte vivono la realtà di trovarsi modificati in sé stessi diventando ciò che fanno, ritrovandosi in gesti e moventi di cura e attenzione che li hanno portati oltre difese e pregiudizi, oltre l’agire stereotipato e difensivo. Come in un anticipo, un desborde, un traboccamento: verso le sofferenze, le solitudini e le umiliazioni che ci si presentano accanto, verso le miserie morali delle persone che si incontrano sul nostro cammino.
Si possono a volte vedere, e questo dà a pensare, percorsi particolari, che insolitamente vanno al contrario cioè dagli altri a se stessi. Si può giungere ad “amare gli altri fino a scoprire di essere un altro, da amare come tutti. Un recupero di sé, del proprio io”,[1] addirittura partendo “dal punto in cui non ci sono più motivi nuovi per amare”.[2] Là dove si può sentire la presenza di quel conflitto ghiacciato, del sentire che l’altro afferma (o io stesso affermo) “tu per me non esisti”.[3]
In comunità “ci si dà da fare”, gli uni con gli altri, e così si cambia, si vivono cammini, ci si scopre in inizi, in “domande meravigliate”.[4]
La umanità dei corpi, la declinazione delle culture, degli stili di relazione in cui vive la comunità dà origine a dinamiche personali, esistenziali e a dinamiche di convivenza e sociali. Non sono serre le comunità, neppure piccoli monasteri o rifugi, sono piuttosto attendamenti nei quali passare da dissolvenze o cristallizzazioni sofferte alla costruzione di un luogo abitabile e abitato con altri e di una responsabilità che matura dentro riconoscimenti, scambi e incontri. Quasi e per certi versi sempre, ci si ritrova migranti[5] tra stagioni, identità ed appartenenze. Non più in fuga, non più costretti in difese aggressive o abuliche, ma giorno dopo giorno capaci di fare i conti con vulnerabilità e ferite e con pratiche e desideri di pace e di riconciliazione. Anche tra parti di sé.
Quasi e per certi versi sempre, ci si ritrova migranti tra stagioni, identità ed appartenenze
Le storie intrecciate nelle vite quotidiane delle persone che danno vita alle comunità residenziali e di accoglienza, operatori compresi, si dipanano come sempre uniche. Attraversano, guardano, tornano a interessare la convivenza intera, i suoi mondi di vita, le sue forme e le sue tensioni. Interrogano le sue rigidità selettive ed escludenti, si rispecchiano nelle sue dinamiche generative di fraternità e di prossimità.
Ascoltare in profondità e con una certa continuità la vita che avviene e che prende forma nelle comunità può essere prezioso per la convivenza, può anche aiutare a costruire momenti di convivenza condivisa su ciò che si apre e con ciò che fatica.
È prezioso esplorare nelle esperienze di accoglienza un processo di formazione che è ancora in fase emergente: è importante seguire esperienze attraverso studi di caso intensivi che aiutino a ricostruire eventi e situazioni con dati di prima e seconda mano, sviluppando collegamenti tra idee, concetti, prospettive, variabili non previste, elaborando ipotesi interpretative e itinerari di riflessione che si generano e via via prendono tratteggio.[6]
Le differenze, anche profonde, tra le esperienze delle comunità, delle residenzialità e delle convivenze vanno colte nel valore specifico delle loro diverse traiettorie, che permettono di accogliere differenti attese e differenti fragilità, diverse fratture biografiche e familiari. Occorre cogliere anche i diversi modi delle transizioni e delle elaborazioni culturali che promuovono la dilatazione dei campi di esperienza, nelle quali sono raccolte e incontrate le narrazioni e le ridefinizioni delle identità, le maturazioni di scelte nuove, di prese d’autonomia, di una nuova intenzionalità.
La voglia di comunità di cui parlava Zigmut Baumann trova maturazione e configurazione nella necessità di ricomporre la vita attorno a tessiture di legami riscoperti, sufficientemente forti.[7] Il confronto continuo con gli altri, l’allargamento dell’orizzonte relazionale, una relazione continua e profonda, creano effetti sulla vita quotidiana, sui modi della vita. Il vissuto comunitario tra adulti (pur portatori di responsabilità e vincoli differenti), e tra adulti e minori può far maturare un senso della vita comune che ha la concretezza legata alle pratiche e ai caratteri di un contesto particolare, e può essere più interiorizzato, radicato in dimensioni emotive o simboliche.
Certamente ogni comunità, ogni storia ed ogni cammino ha le sue trasparenze e le sue opacità, un suo narrato e un suo sottotaciuto. Quello che vi avviene va oltre le dimensioni giuridiche o quelle trattamentali, ma vi si aprono processi di tutela e promozione di un periodo della vita. Che non si esaurisce nella comunità, né si compie solo in essa.
Certamente come sosteneva anni fa Giuliano Piazzi, «la sofferenza può costituire la levatrice della coscienza dell’uomo, ma intendendola come una levatrice che porta a vivere l’uomo nelle sue radici più profonde.» Coscienza di un uomo che prende coscienza di quello che lui è veramente: “cioè di non essere colui che si edifica nel confronto relazione-distinzione dagli altri, ma di essere colui che nasce dalla distinzione dalla morte, dalla non vita. La sofferenza è levatrice di coscienza proprio perché fa prendere coscienza del fatto che l’uomo è, essenzialmente e all’origine, un insieme di possibilità che nascono nel momento stesso in cui l’uomo è vita.”[8]
A volte l’esperienza della sofferenza “porta lontano”: si sente e si teme di non appartenere più a nessuno
Ma a volte l’esperienza della sofferenza “porta lontano”: si sente e si teme di non appartenere più a nessuno, e di non appartenersi più. Serve allora la forza delicata e fedele della presenza del corpo dell’altro nel proprio corpo, il tocco della cura, della presenza discosta e concreta, quella che avviene dentro l’orizzonte di una vita quotidiana che può resistere al farsi esperienza del vuoto e del nonsenso. La relazione, la rete di presenze “entra dentro” e aiuta a dare forma ai sentimenti ed alle emozioni, alle conoscenze e alle relazioni. Si costruisce così una nuova solidarietà tra corpo e mente, tra dentro e fuori, tra emozioni ed elementi culturali, tra bisogno di credere e desiderio di capire.
E l’altro, singolare ed unico, differente è scoperta, preziosa e quasi “necessaria” con il suo portato di strategie di vita e ricomposizioni, di significati e di domande. Patrimonio da incontrare, da cui ricevere e cui offrire alla ricerca di nuove possibilità, di possibili armonizzazioni, di riequilibri, di passaggi oltre le paludi e di labirinti, quelli che a volte prendono dentro persone, interiorità e legami.
Le comunità sono un luogo in cui abita, si accoglie, si “soffre” anche la sconfitta, il fallimento. Nella stagione in cui ha preso piede la tecnica del lavoro sociale, gli “effetti” frustranti dell’insuccesso sugli operatori sociali sono stati non di rado elaborati e banalizzati con riferimento alla categoria del burn out.[9] Nelle comunità vivono vite che il fallimento lo hanno attraversato e lo vivono come presente e persone che operano con competenza incontrando il limite e la fatica, l’impossibilità di controllo e di efficacia. Queste ultime sentono la tentazione di fuggire entro schemi di lavoro tecnico-burocratici e linee guida per il trattamento, oppure in luoghi esistenziali lontani dalle radiazioni della sofferenza. E la tentazione d’immunizzarsi.
Stare ad attraversare la sconfitta è piuttosto questione di sapienza umana
Stare ad attraversare la sconfitta è piuttosto questione di sapienza umana, è questione che rimanda al saper trattare con il mistero, è questione di ricerca pratica di un’emancipazione della sofferenza che non sia cercare su di essa vittoria o successo.
L’insuccesso può non essere distruzione o dissolvimento, può essere recuperato, riattraversato e rinarrato come interno ad una nuova possibilità d’inizio. Ad una profezia, a un segno di futuro. Con segnali e anticipi concreti; con saperi messi alla prova nella vita quotidiana, e nella combinazione di suoi elementi: il riconoscimento, la gioia, la giustizia, il bene, il servizio.
«Fare percepire il volto nuovo della vita quotidiana» scrive Mario Pollo «permette di aprire al sogno», alla profezia. Si tratta di una valorizzazione, di collocare in un contesto diverso e in una diversa relazione reciproca le cose di cui la vita quotidiana è intessuta. «Sognando» la vita quotidiana «si può costruire una realtà nuova più consona al desiderio di una vita nuova liberata.»[10]
Il futuro di cui costruire l’annuncio nelle esperienze di soglia, come sono o possono essere le comunità, va scoperto anche nelle asperità del presente ed anche negli elementi stessi che disegnano la sconfitta. Se non si intendono riscattare le sofferenze della sconfitta le persone soffocano nel disincanto cinico o nella disperazione.
Lavorare nelle comunità chiede agli operatori di sperimentare il limite delle proprie capacità e competenze, sapendo che si può sperimentare, come in ogni attraversamento difficile, anche il naufragio. Il proprio esercizio professionale si arricchirà così della logica del vivente e accederà a una nuova sapienza: è questa che può serbare la speranza che spesso fatica nei passaggi della sconfitta.
Come invita spesso a fare Franca Olivetti Manoukian, riprendendo una riflessione di Eligio Resta occorre allora passare dal pensare alla pensosità. Pensare prova a tracciare la linea più breve tra un problema individuato e una soluzione; la pensosità “si muove su ritmi e tempi diversi” perché si sofferma, indaga attorno, si sofferma in ascolto, cerca altro, incontra sguardi non considerati. Permette di darsi delle prospettive diverse e non già pensate, è riconoscimento e ri-conoscenza. «É una conoscenza che ritorna su di sé per auto osservarsi e riesce a vedere diversamente proprio perché rielabora la sua ottica.»[11]
Passare dal pensare alla pensosità
L’orizzonte in cui si sono disegnate queste pagine è quello della fenomenologia: la realtà si dà sempre dal vissuto delle persone che ne fanno esperienza.[12] Va alimenta l’attenzione al suo manifestarsi, evitando di mettersi in cerca di fatti da riordinare da parte dell’intelletto, ma muovendosi alla tessitura di quei significati che si offrono alla ragione e al sentire. «Non si tratta di un vedere con gli occhi, eppure si tratta di una presa di coscienza immediata, di un “vedere dentro” che non ha nulla da invidiare alla conoscenza sensoriale.»[13]
Si tratta di una postura esistenziale, della pratica di un’etica del quotidiano attenta al valore di una vita liberata dai pregiudizi; è la prospettiva di un’epistemologia della contingenza liberata dalle ansie di un sapere capace di controllare e tenere tutto nei concetti. Fuori da mondi anticipati, sospendendo il giudizio si può apprendere a muoversi in ascolto di ciò che si presenta, tracciando sapere dalla esperienza, pensosi e recettivi.
Annota Daniele Bruzzone: «chi ritiene che lavorare nel sociale richieda solo spirito pragmatico e abilità professionale forse sbaglia. Se l’anima del lavoro sociale è la cura delle persone e se la cura delle persone si fonda sull’amore per la vita, allora è necessario anche imparare a pensare le questioni più profonde, quelle del senso e del non senso dell’esistere.»[14]
Abitare le comunità di accoglienza, operandovi, chiede di lasciare risuonare in sé il vissuto dell’altro: vuol dire “fargli spazio” dentro di sé e, insieme, stare esposti a sentire. Una preziosa occasione per coltivare uno spazio interiore.
[1] G. Cittadini, Virtù quotidiane, Morcelliana, Brescia, 2006, p. 19.
[2] Ivi, p. 20.
[3] S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012.
[4] M. Zambrano, Per l’amore e per la libertà. Scritti sulla filosofia e sull’educazione, Marietti, Genova, 2008.
[5] P. Gandolfi, Noi migranti: per una poetica della relazione, Castelvecchi, Roma, 2018.
[6] R. Trinchero, I metodi della ricerca educativa, Laterza, Roma-Bari, 2022; E. Besozzi, M. Colombo, Metodologia della ricerca sociale nei contesti socioeducativi, Guerini, Milano, 2014.
[7] V. Cesareo, Ricomporre la vita. Gli adulti giovani Italia, Carocci, Roma, 2005; Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2022, Il Mulino, Bologna, 2022.
[8] G. Piazzi, Nella terra di nessuno, «Animazione Sociale», n. 1, Torino 1994, p. 6; vedi anche G. Piazzi et al., Oltre la comunità, Franco Angeli, Milano, 2005; C. Baraldi, G. Piazzi, Il contributo dell’epistemologia sistemica alla conoscenza sociologica, in R. Gubert (a cura di), Teoria sociologica ed investigazione empirica, Franco Angeli, Milano, 2006.
[9] M. Pollo, Manuale di pedagogia generale. Fondamenti di una pedagogia culturale dell’anima, Franco Angeli, Milano, 2009; id., L’individualismo inautentico, Fuorilinea, 2021.
[10] M. Pollo, L’esperienza della sconfitta nel lavoro sociale, «Animazione Sociale», n. 1, Torino 1994, p. 26; A. Rizzi, Messianismo nella vita quotidiana, Marietti, Genova, 1981; id, Utopia e quotidiano nella Bibbia. Elementi per una prassi messianica, Morcelliana, Brescia, 2010.
[11] F. Olivetti Manoukian, Cinque ipotesi per cambiare, «Animazione Sociale», n. 1, Torino 2007, pp. 24-25.
[12] D. Bruzzone, La vita emotiva, cit; D. Bruzzone, E. Musi (a cura di), Aver cura dell’esistere, cit., D. Bruzzone, Oltre la gabbia di mille tecnicismi, «Animazione Sociale», n. 8-9, Torino, 2007, pp. 74-ss.
[13] L. Bingswanger, Sulla fenomenologia, in A. Warburg, L. Binswanger, La guarigione infinita, Neri Pozza, Venezia, 2005, p 261.
[14] D. Bruzzone, Oltre la gabbia di mille tecnicismi, cit., p. 78.