Democrazia e democrazia diretta

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Democrazia e democrazia diretta

Le firme on line per i referendum hanno rilanciato la discussione sulla cosiddetta democrazia diretta. Filippo Pizzolato è docente universitario di Istituzioni di Diritto Pubblico

La possibilità di apporre firme telematiche ha rilanciato la prospettiva – utopica o distopica – della democrazia diretta, mediante la moltiplicazione di quesiti referendari. In effetti l’accelerazione c’è stata e ha sollevato ampio dibattito, dai toni per lo più allarmati.

I cittadini meritano fiducia

Personalmente, non credo all’argomento che telematicamente la firma si apponga in modo più leggero che ai banchetti. Semplicemente è più facile. Il processo alla serietà delle intenzioni si potrebbe fare allo stesso modo con le firme raccolte in presenza.

E, in ogni caso, bisogna essere molto cauti ad accreditare posizioni che sottintendono sfiducia, quando non disprezzo, verso i cittadini.

La temperie politica spinge già fin troppo verso questo atteggiamento, con l’enfasi, a mio parere ambigua, verso l’élite politico-tecnocratica (il Governo dei migliori) e scientificamente illuminata e con l’insofferenza verso manifestazioni, anche quelle ragionevoli, di dissenso critico. Ci sarebbe molto da riflettere sulla presunta superiorità delle élite se il Paese è giunto a questo livello di disaffezione e di degrado, nonché di sospensione della politica, con partiti che consegnano la loro claudicante legittimità nelle mani di tecnici o manager illuminati.

Peraltro, sono anni che tra gli studiosi stessi pullulano saggi in cui si esaltano le possibilità inedite della e-democracy, in termini di valorizzazione della partecipazione diretta e di esaltazione della cosiddetta intelligenza collettiva. La stessa esaltazione – di gran moda – della smart city utilizza questo armamentario. Che cosa ci si aspettava? Dobbiamo pensare che interessasse solo lo sdoganamento ulteriore della tecnologia e che la partecipazione fosse un mero pretesto retorico?

I partiti non controllano più la mediazione politica democratica

Occorre riconoscere francamente che i partiti hanno perso il controllo della mediazione politica democratica. Questo vale – per così dire – verso l’alto, dove sono indotti ad appoggiarsi a leadership di natura tecnica o economica. E questo vale verso il basso, dove sono scansati dalle più vitali forme di partecipazione civica dei cittadini attivi.

I due versanti della rappresentanza politica (l’investitura di classe dirigente e la partecipazione popolare) risultano così gravemente sconnessi. I partiti, dal canto loro, sono in difficoltà tragiche sull’uno e sull’altro fronte.

In questa situazione, non stupisce che siano gli stessi partiti a provare a cavalcare l’onda della e-democracy, camuffando la loro azione e la loro presenza dietro procedimenti di cosiddetta democrazia diretta.

In questa situazione, il punto non è quindi seminare (ulteriore) disprezzo verso i cittadini, ma interrogarsi sull’idoneità in sé dello strumento (in questo caso il referendum abrogativo) ri-attivato telematicamente e, sperabilmente, anche sulla sua collocazione entro la prospettiva costituzionale di democrazia.

Il voto on line e la partecipazione

Sotto il primo profilo, la saldatura tra procedura referendaria e strumento telematico rivela molti limiti quando quest’ultimo sia usato a scopo decisionale e non deliberativo. Nel primo senso, le preferenze espresse sono meccanicamente aggregate. La partecipazione – espressa in forma individualizzata e a distanza – vorrebbe già dare forma definitiva alla decisione, rispondendo a un appello a struttura binaria o dicotomica (sì o no).

In questo modo si salta di netto la fase della mediazione e del confronto.

Le preferenze individuali non scambiano argomenti né si confrontano, come invece avviene nei meccanismi deliberativi in vista di una mediazione o di una soluzione più condivisa. Ciò è tanto più grave se si pensa che, per i suoi limiti costituzionali, il referendum è solo abrogativo. Dunque produce decisione, semplicemente tagliando leggi o pezzi di legge. In relazione alla natura del quesito e della tematica affrontata, l’esito della decisione referendaria può risultare davvero grossolano e in quanto tale inaccettabile.

E’ il caso dei referendum sulla giustizia e sull’eutanasia. Per i quali avviene il cortocircuito logico di dover poi confidare in quella mediazione legislativa dalla cui sfiducia si è partiti e da cui ci si aspetta che possa ridare, quasi sotto ricatto e con tempi risicati, una sistemazione accettabile alla materia.

Il referendum sull’eutanasia e i suoi rischi

La riflessione sui referendum andrebbe dunque fatta quesito per quesito.

Nel caso dell’eutanasia, ad esempio, l’eventuale successo della procedura porterebbe a una pressoché totale legittimazione dell’omicidio del consenziente,

attestando la legislazione a un punto estremizzato rispetto alle cautissime – e spesso ignorate – indicazioni della Corte costituzionale sul caso DJ Fabo/Cappato.

Sul piano costituzionale, infine, andrebbe sempre rimarcato che la nostra Carta fondamentale fonda la democrazia sul “lavoro” e cioè su processi feriali e pazienti di tessitura della convivenza da parte, anzi tutto, dei cittadini e dalle loro formazioni sociali, supportati dalle istituzioni.

Questa, e non la pretesa decisionale e semplificatoria di individui irrelati, ma neppure la delega a vere o più spesso presunte élite, è la partecipazione popolare che la Costituzione valorizza: la cooperazione alla costruzione della convivenza, l’assunzione corresponsabile delle fatiche e della vulnerabilità del vivere umano.

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