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Antiche inquietudini. Inquietudini di oggi

Rembrandt, Autoritratto con berretto e colletto rialzato c. 1659, particolare

Riflessione di quaresima.
Su uno splendido capolavoro di Rembrandt.
Le inquietudini del grande artista e le nostre


Intorno al 1655 Rembrandt dipinge la figura di un uomo a cavallo.

Quest’opera, che Kenneth Clark, lo storico dell’arte inglese, ha definito come uno dei quadri più poetici del mondo, appartiene alla Frick Collection di New York.

Il misterioso “cavaliere polacco”

Il dipinto è noto oggi come Il cavaliere polacco e presenta molti aspetti avvolti nell’indeterminatezza. Non sappiamo chi sia il personaggio raffigurato: il suo costume e le sue dotazioni militari, minuziosamente indagate da Rembrandt che tanto amava l’esotismo stravagante, sono quasi certamente polacchi o dell’Europa dell’Est, ma non è dato sapere se il cavaliere sia un personaggio storico o si tratti di un vero e proprio ritratto su commissione (di qualche giovane lituano o polacco che all’epoca frequentavano le università olandesi), se sia figura biblica o mitologica, se il capo di una setta religiosa prossima ai Mennoniti – come è stato supposto – oppure il miles christianus che affronta i nemici della cristianità, o infine una mera invenzione figurativa con aspetti sorprendenti e curiosi.

Non ci soffermiamo sulle interessanti e avventurose vicende storiche del dipinto, passato in molte collezioni di nobili e re, soprattutto polacchi, per approdare poi nei primi anni del Novecento all’attuale sede newyorkese.

Rembrandt esegue quest’opera in un anno difficile e di svolta nella sua carriera, quello del completo e certificato dissesto economico. Gli viene accordata la cessio bonorum, una forma di fallimento data a cittadini ritenuti onesti e giudicati non responsabili del loro rovescio finanziario, ma di fatto perde ogni cosa. Sono anni in cui la sua pittura sta cambiando verso una direzione e uno stile non compresi dai committenti, che sempre più si allontanano e diminuiscono.

Quest’opera magnetica e seducente racconta anche quegli anni travagliati dell’artista.

Non è chiara la meta del cavaliere, che volge il volto e lo sguardo alla luce, al di sopra del braccio piegato; pare muovere risoluto in una certa direzione e tuttavia si gira e guarda indietro; la sua postura in sella è elegante e spavalda ma lo sguardo malinconico e misterioso accentua la strana atmosfera di sospensione e incertezza dubbiosa. 

Sul fondo cupo si scontornano come fantasmi le figura dell’uomo e dell’animale. Le note rosse del copricapo e dei calzoni esaltano il grigio argenteo della giubba del cavaliere e del manto del puledro. Di questo sono minuziosamente descritti, tramite bianche tracce di pennello e striature opalescenti, i muscoli, i tendini, i garretti, in una sorta di dissezione che con gesto espressionista indaga l’anatomia degli arti su fino al collo e alla splendida testa, con la dentatura in vista.

Il cavallo diventa così “un quasi-spettro, mesmerica radiografia pittorica di una creatura che pare eccedere la propria incarnazione sensoriale (…) ad irretire lo sguardo è l’insondabile potenza dello stile: l’ipnotismo funereo dell’animale, che si staglia su quell’agglomerato di macchie e zolle liquefatte…” (Marcello Barison).

La bestia e il suo incedere sembrano effettivamente preludio a un incombente destino tragico, un’inevitabile fine e sciagura: “Quel giovane uomo ritto su un cavallo pallido, quel viso insieme sensibile e selvaggio, quel paesaggio desolato dove la bestia allarmata sembra fiutare la disgrazia, e la Morte e la Follia infinitamente più presenti che nella vecchia incisione tedesca, se per sentirle vicinissime non si ha nemmeno bisogno del loro simbolo…” (Marguerite Yourcenar).

E questa atmosfera drammaticamente sospesa e inquieta viene davvero confermata e potenziata dallo sfondo e dal secondo piano, sommariamente abbozzati, forse da un allievo, che ci paiono sinistri e modernissimi: foschi, coperti dall’ombra, come impregnati di pece in questa fangosa landa estrema. 

La strada fiancheggiata da un fiume, un colle con una strana fortezza, e al di là dell’acqua forse un fuoco avvolto dal fumo.

L’immagine di questo giovane soldato, che con la mano sul fianco e il volto rivolto verso la luce, si avvia con malinconica fierezza incontro al suo destino, viene dipinta, come detto, in un momento di cambiamento e trasformazione nella vita dell’artista, segnata da preoccupazioni familiari e sfortune economiche.

Il buio di Rembrandt, quello di oggi, quello della Chiesa

La prendiamo come emblema anche di questo nostro tempo, segnato da ansie e preoccupazioni, in cui incertezza e paura sono la cifra che caratterizza giorni minacciati da malattie mortali che sembrano interminabili, guerre e conflitti tragici di cui non si intravede soluzione, sconvolgimenti naturali che aggiungono dolore a dolore…

Anche la Chiesa pare da lungo tempo (da sempre?) impegnata in un laborioso, faticoso cammino di cambiamento, trasformazione e discernimento. Come quella del giovane cavaliere sembra una traversata dal destino incerto e sospeso.

Ancor più decisivo quindi il compito degli uomini che cercano la fede e coltivano una vita spirituale, tenendo viva, come segno per tutti, la parola di speranza portata dal vangelo.

Opinione comune è quella che cerca lo spirituale nello straordinario, abbandonando così l’ordinario alla superficialità, all’esteriorità; parimenti si riduce tutto a individualismo quando dell’io si perdono la soggettività, la coscienza, la libertà che sono aperte dalla fede nell’uomo.

Ma la nostra vita, per essere tale, è necessariamente spirituale: nella sua quotidianità ogni istante ha la sua profondità, la sua unità.

La creatura umana, la sua carne, hanno una luce, un senso, un legame, una parola, una storia. 

Il tempo di Quaresima, portandoci verso la Pasqua, chiede di riconoscere quello che facciamo sempre tanta fatica a credere: che Cristo cioè invita a fare nostra la sua umanità risorta.

Si può vincere la morte soltanto giungendovi con un tempo e una storia che sono già risorti. Se abbiamo costruito qualcosa di vero che neanche la morte distrugge, perché attraverso la nostra capacità di vigilare, di giudicare e discernere, l’abbiamo costruito col Signore e a lui affidato.

Ci frena il fatto di sentire la nostra vita banale, non all’altezza di questo compito, e pare ci stia crollando intorno questo mondo, che continua ad essere selvaggio, tragico. Eppure, in esso viaggiano e l’attraversano gli uomini, con questa Parola di grandezza e speranza: l’umanità di Gesù, la nostra, anticipa una vita più forte della morte.

Viviamo come dei ritornanti dalla morte. Che sia questo il viaggio del nostro cavaliere?

Per coltivare la speranza, per il difficile viaggio, anche oggi è necessario girare il volto verso la nostra luce.

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