
Sono appena passate le feste di pasqua. Qualcuno si è confessato. Sulle confessioni, quelle di pasqua e le altre, c’è molto da dire. Pochissimi si confessano, ormai, non solo rispetto al totale della popolazione, ma rispetto anche ai credenti. Una certa percentuale della popolazione italiana va a messa, una piccola percentuale di chi va a messa si confessa.
Le ragioni di questo tracollo sono tante. Forse il più pesante di tutti i motivi è da legare alla diminuita fiducia nella Chiesa. E’ sempre la Chiesa che “fa i sacramenti”. Ma di tutti i sacramenti la confessione è quella che mette in gioco maggiormente il rapporto fra il singolo credente e l’istituzione ecclesiale.
“Perché devo andare a raccontare a un prete le mie magagne?”
È molto meno impegnativo partecipare a una messa che confessare le proprie colpe a un prete. “Perché devo andare a raccontare a un prete le mie magagne?”, abbiamo sentito ripetere anche in questi giorni. Spesso si tratta di una affermazione che i genitori che si confessano riferiscono al prete circa i figli che, invece, non si confessano.
Questa ragione si unisce alle molte altre che sono state variamente commentate. Ma ne vorrei ricordare una, un po’ particolare, non molto citata. Questa: la povertà liturgica del rito. Il rito della penitenza – o confessione – dovrebbe essere un rito importante della Chiesa: è uno dei sette sacramenti, infatti. Ma è poco rito e quindi si fatica parecchio a capire che è un sacramento e che è importante.
Si prenda il libro che contiene il rito ufficiale della penitenza e si vada al capitolo “Rito per la riconciliazione dei singoli penitenti”. Sono previsti i seguenti passaggi. Primo: il segno di croce. Secondo: un “saluto” che il prete rivolge al penitente (il rito ne prevede sei formule diverse). Terzo: “lettura della Parola di Dio”: si propongono dodici brani con l’indicazione che se ne possono scegliere altri. Quarto: confessione dei peccati da parte del penitente. Quinto: preghiera del penitente e assoluzione (l’”atto di dolore” o altro. Il testo prevede una serie di nove formule diverse. Da noi si usa il noto: “O Gesù d’amore acceso…”, formula un po’ ottocentesca che non è usata nella maggior parte delle altre diocesi e che non si trova nelle nove formule previste dal rito ufficiale).
“O Gesù d’amore acceso”… è una formula un po’ ottocentesca
Il rito parla anche delle mani stese sul penitente. Sesto: “Rendimento di grazie e congedo del penitente”. Anche qui, diverse formule sono previste.
Di tutti questi passaggi poco è rimasto nel concreto esercizio della liturgia della penitenza. Di solito si fa un segno di croce iniziale, un “Sia lodato Gesù Cristo” sostituisce il saluto. Non si legge quasi mai la Parola di Dio. Spesso non si stendono le mani sul penitente. Il rito della penitenza si è ampiamente deritualizzato e si è ridotto, di fatto, al colloquio con il prete. Si possono trovare ragioni per questa deriva. Ma di deriva si tratta.
Da notare poi la formula di assoluzione che il prete pronuncia. È un testo “impossibile”: una sola frase complicata, più volte interrotta da parentetiche, con soggetto e verbo lontani l’uno dall’altro.
Oltretutto si fatica a capire come mai la Chiesa che ha previsto una dozzina di preghiere diverse per la consacrazione della messa, per la penitenza usa la stessa frase, così complicata per bambini, adolescenti, giovani, anziani, uomini, donne…
Sembra quasi che la Chiesa stessa fatichi a comprendere l’importanza della penitenza
Insomma la Chiesa non ha curato il rito della penitenza come ne ha curato altri. E si vede. Sembra quasi che la Chiesa stessa fatichi a capire l’importanza del sacramento del perdono e quindi fatichi la sua parte per far capire quell’importanza ai penitenti.
Per questo sono di grande significato le confessioni dei pochi che ancora vi si accostano, quasi un piccolo miracolo che vuole salvaguardare il dono inestimabile del perdono e del rito che lo celebra.