
Nel suo discorso sulla chiesa il papa sostiene che
il cammino della sinodalità è il cammino che si aspetta dalla chiesa del terzo millennio. Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola-sinodo: camminare insieme, laici, pastori e vescovo di Roma”
e non solo nell’ascolto, ma anche nel discernere, nel valutare e nell’elaborare decisioni condivise. In margine al sinodo, molto si deve dire.
Un cammino a vari livelli: diocesano, nazionale, mondiale. Esperienza unica nella storia della chiesa da quando, nel primo secolo, sotto la spinta di Paolo, la chiesa dei giudei è diventata chiesa dei pagani.
Un cristianesimo che si salda in una cultura per tradurre il Vangelo in vita, in questa vita, oggi, senza nostalgia per un passato che non c’è più, senza avventurose fughe in avanti.
D’altronde la chiesa, che il Concilio nella Lumen gentium, definisce “Popolo di Dio” è per sua natura sinodale, se ci rifacciamo alla chiesa madre di Gerusalemme, così come la presentano gli Atti degli Apostoli. Allora, i primi cristiani “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42), in una koinonia dove “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).
La sinodalità, quindi, non è marginale, non è solo un capitolo della ecclesiologia, ma è costitutiva e implicita nel concetto stesso di chiesa. “Senza sinodaltà la chiesa non è semplicemente meno simpatica” come icasticamente dice Sequeri, “ma si corrompe”. È meno chiesa. Non rappresenta il popolo di Dio, là dove “laici, pastori e vescovo di Roma”, camminano insieme per ricreare il corpo di Cristo (I Cor 12, 12-31) e dove ognuno è parte essenziale, insostituibile, pur nelle diverse funzioni, nella fedeltà al Capo e nella fedeltà all’umanità, alla terra, alla creazione.
Si tratta di recuperare il “noi ecclesiale” superando il modello teologico piramidale. Dobbiamo mostrare che solo nella polifonia della ministerialità maschile e femminile, nel dialogo fra le generazioni, nella partecipazione dei battezzati, tutti coinvolti in questo processo di rinnovamento, col coraggio di mettere in discussione criteri e metodologie pastorali, si costruisce la chiesa.
C’è bisogno di rivedere le forme tradizionali, che vadano al di là di qualche aggiustamento. La crisi, lo sappiamo, è molto profonda. La fede non è più il dato fondante della nostra società. Noi ci troviamo per la prima volta in un mondo, quello occidentale, che non pensa più secondo parametri religiosi. Per cui non basta un restauro di facciata che non dura. Non servono trucchi e imbellettamenti per nasconder le rughe che d’altronde sono troppo profonde e riemergono dopo ogni cerone.
È un’occasione unica. Non sprechiamola. Ne va della bellezza e della verità del Vangelo.
Ma per ora, almeno qui dalle nostre parti, non avverto un vero interesse. Mi pare, spero di sbagliare, di percepire una calma piatta, a parte le lodevoli iniziative portate avanti da “ Molte fedi sotto lo stesso cielo” in collaborazione con le Acli regionali.
A riprova di questa afasia, mi riferisco alla scarsa reazione fino all’indifferenza in seguito ad alcuni interventi del papa in campo sinodale.
Nell’ottobre scorso il papa con un “motu proprio” ha aperto alle donne il ministero dell’accolitato e del lettorato, prima riservato agli uomini, e ancor prima, fino al 1972, solo agli aspiranti presbiteri. Precedentemente, accogliendo le istanze del sinodo dell’Amazzonia, con un altro “motu proprio”, “Antiquum ministerium”, ha istituito il ministero dei catechisti destinato ai laici, uomini e donne.
Si potrebbe obiettare che già c’era da alcuni decenni una ministerialità di fatto estesa ai laici e soprattutto alle laiche.Tutti abbiamo visto bambine e ragazze al servizio della Mensa, così come tutti sanno che la maggior parte del lettorato è appannaggio delle donne. E non parliamo del servizio della catechesi che, in Italia, per il 93% è di genere femminile.
Invece adesso viene proposta una ministerialità laicale non solo di fatto, ma di diritto. Non come supplenza di un vuoto prodotto da un presbiterato sempre più lacunoso, non in una posizione ancillare e subordinata, ma, appunto, di diritto, derivante dalla dignità creazionale e battesimale.
E allora non capisco come queste posizioni recepite dalla Chiesa, non siano state accolte come una tappa altamente significativa.
Abbiamo sempre criticato la marginalità in cui le donne sono state confinate, e come la chiesa si ostini a percorrere strade ripetitive e sempre meno profetiche e abbiamo biasimato un clericalismo fagocitante.
E ora? Ora che si parla di una chiesa di popolo, in mezzo al popolo (vedi la “Pastorale in conversione” in Evangelii gaudium”), noi non ci siamo. Ci siamo abituati a un ruolo subalterno, dentro la “chiesa del silenzio”, ma non quello imposto, ma quello dell’indifferenza.
È cosa che non interessa.
Forse, come afferma il teologo tedesco Metz, siamo in un tempo caratterizzato da uno svuotamento di speranze, di significati, di senso, che conduce a quella regola di vita che ci rende “analfabeti felici”, “adatti alla “routine”, in un ritualismo privo di fede, incapaci di osare il Vangelo.
C’è molto lavoro da fare.
Ma non perdiamo l’occasione di percorrere insieme questo itinerario sinodale.