Don Giacomo Facchinetti, indimenticata docente di Sacra Scrittura, ci lasciava, un anno fa.
Nei giorni scorsi, a Entratico, suo paese natale, è stato presentato un libro di testimonianze.
Lo straordinario fascino della Parola e la spontaneità del maestro
Anni fa, incontri illuminanti
Ho conosciuto don Giacomo quando, agli inizi degli anni '80, già adulta, sposata e con tre figli, ho deciso di seguire i corsi di Antico e Nuovo Testamento tenuti in seminario da don Giacomo, don Carlo Buzzetti e don Patrizio Rota Scalabrini.
La mattina, il marito al lavoro e i figli a scuola, di corsa, attraverso le scalette che portano in città alta, raggiungevo l'aula dove mi aspettavano meravigliose lezioni, che mi facevano scoprire universi nuovi, quelli della Parola che schiudono squarci di Vita
Qualche anno dopo, quando ho dovuto sospendere le lezioni del seminario per la nascita della mia quarta bambina, ho avuto modo di rincontrare don Giacomo come referente ecclesiastico dei Gruppi biblici di cui facevo parte.
Allora la conoscenza è stata più profonda, così che ho potuto apprezzare la sua peculiarità, l'originalità nell'affrontare i testi scritturistici.
Di fronte alla "nudità" della Parola
Quello che mi colpiva maggiormente era il suo approccio diretto alla Scrittura.
Semplice, essenziale, indiviso: in lui Parola e vita si integravano naturalmente, senza sovrastrutture ecclesiastiche e accademiche, che alla fine possono distogliere dal cuore del Messaggio.
Ciò però non voleva dire per lui evitare le difficoltà oggettive che spesso, soprattutto l'Antico Testamento presenta, ma, anzi, mettere in rilievo la fatica del capire, contro la superficialità di chi ascolta ciò che vuole ascoltare, di chi capisce ciò che vuol capire, o solo quando la cosa non disturba troppo.
Don Giacomo si metteva davanti alla nudità della Parola nell'ubbidienza della fede.
E così ci ha insegnato a lasciarci provocar da alcuni testi che grondano lacrime e sangue, tanto che, non di rado, di fronte a quelle pagine, diceva, “Vorrei che queste pagine venissero incollate”, senza ricorrere al facile Dio tappabuchi per edulcorare e dolcificare ciò che è amarissimo e inspiegabile ma, all'inverso, per condividere con Dio la sofferenza di un mondo senza Dio.
In questo è stato maestro.
Giobbe, il silenzio di Dio, Qoelet e il mondo della vanità
Mi sembrava che avesse una predilezione per l'Antico Testamento, dove è più presente la terra, la concretezza della vita, l'al di qua, dove l'umanità è presentata nella sua bellezza e anche nella sua ambiguità che è il limite del peccato, sempre accovacciato alla porta, dove stare di fronte a Dio significa immergersi nella realtà, assumere le proprie responsabilità con il rischio inevitabile delle scelte.
Perché la Bibbia nasce in precisi contesti storici, e nella storia va interpretata, senza irenismi o spiritualizzazioni, ma nel difficile cammino della fede.
Anche in questo don Giacomo era maestro e sapeva sapientemente spaziare da un testo a un altro, dalla Torà, ai libri storici, ai profetici, ma anche i sapienziali dove prevalgono i temi della quotidianità e si impara ad incarnare la verità in ogni aspetto della vita, pur senza la Legge, il Sabato, il Santuario.
Poi Giobbe e il silenzio di Dio, e Qoelet nel mondo della vanità.
La malattia, la commozione di fronte alla lettera ai Romani
Il tutto accompagnato da una innata affabilità. Prima di iniziare la lezione, tutti attorno al tavolo, passava fra di noi e per ognuno aveva una parola particolare: per lui non eravamo un gruppo, ma: Paola, Cristina, Giovanna, Giuliana, Fernando, Ada, Giuseppe... e sigillava la parola con un bacio.
In uno dei nostri ultimi incontri biblici, quando già la salute lo stava lentamente abbandonando, ci aveva raccomandato la meditazione e la preghiera su una delle pagine più profonde di Paolo, il capitolo VIII della Lettera ai Romani.
E mi sembrava che, dicendo questo, si commuovesse.
Grazie don Giacomo. Mio prezioso sapiente maestro di fede e di vita.