Lo scorso mese di ottobre abbiamo ricordato i dieci anni dalla morte di don Sergio Colombo. Ho pensato molto prima di mettere queste righe “nero su bianco” e più volte ho rinunciato. Ho pensato di non essere la persona più adatta: ben altre persone potrebbero scrivere di lui, avendolo conosciuto meglio di me.
Inoltre, volevo evitare una sorta di mitizzazione che lui non avrebbe voluto. Eppure, sono alla tastiera.
In questi giorni ho letto le reazioni, alcune vere e proprie confidenze, di diversi confratelli all’articolo di Daniele Rocchetti sui preti, sulla solitudine che li caratterizza e le fatiche di questo tempo. Ed ecco che mi sono convinto a scrivere, per rispondere in modo personale alla domanda: perché ci manca don Sergio?
Mi manca don Sergio per la sua capacità di lettura coraggiosa della realtà. Oscilliamo continuamente tra la nostalgia del passato e la speranza di un futuro diverso, ci soffermiamo su mille discorsi concludendo poco o nulla, ci ridiciamo che è importante ripensare la figura del prete e la parrocchia, esattamente come quando io ero in prima teologia, quasi vent’anni fa.
Sapeva leggere davvero i tempi e osare una pastorale coraggiosa
Ecco, io vorrei sentire la voce di don Sergio, che con la profondità che lo caratterizzava, spirituale prima che intellettuale, sapeva leggere davvero i tempi e osare una pastorale coraggiosa (lui che aveva scritto nel testamento proprio di aver sempre preferito il profondo al vasto).
Ci manca quindi il suo coraggio, non frutto di saccenteria o arroganza, ma di una fede costantemente alimentata dall’adorazione, dalla preghiera, dallo studio e dalla cura per l’uomo. Sergio non citava solamente il Concilio, ci credeva e ha voluto e vissuto una Chiesa conciliare. Nel testamento ha espresso la sua volontà che nulla fosse pubblicato dei suoi scritti, eccetto ciò che con la comunità si era tentato di fare per applicare il Concilio a Redona. Spero sempre di più qualcuno lo faccia presto, questo lavoro, perché sarebbe preziosissimo per tutti.
Di Sergio mi manca l’umiltà. Era un prete allergico al protagonismo don Sergio, capace di valorizzare tutti e di riconoscere a ciascuno il suo impegno: non ha mai fatto pesare ad alcuno la sua intelligenza, la sua cultura e la sua fantasia pastorale che non era stravaganza, ma frutto di applicazione competente della teologia alla vita della comunità.
Non ha mai cercato carriere: non è (più) segreto pontificio il fatto che egli rifiutò di diventare vescovo e che dovette andare a Roma, in nunziatura, a spiegare i motivi della sua rinuncia. Egli sapeva ciò che poteva fare e dove poteva arrivare: oltre non andava.
L’avevano nominato vescovo. Ha rinunciato
Qualcuno vi lesse una sua mancanza di fiducia nello Spirito Santo: non fu così, assolutamente, ma una scelta maturata dopo tanta preghiera e una lucida analisi su di sé.
Infine, di don Sergio mi manca l’ascolto, l’ascolto vero. Nel tempo in cui tanti preti portano come maggior fatica la percezione della mancanza un luogo di ascolto autentico, figure come lui diventano necessarie come la manna dal cielo in tempo di carestia. Sergio mi rimprovererebbe per queste parole e mi inviterebbe ad accorgermi che non mancano figure, nella nostra Chiesa di Bergamo, che potrebbero continuare il ministero di ascolto che lui viveva con passione e dedizione.
La sua ultima omelia, a un matrimonio, si concludeva con la certezza inscalfibile che qualcuno, “in quell’angolo di mondo che si chiama Redona”, avrebbe custodito il sogno e l’opera del Signore.
Prega per noi don Sergio, perché riconosciamo queste figure e le valorizziamo, per il bene della Chiesa che tanto amiamo.
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