Non so se don Sergio Colombo abbia mai letto Susan Sontag. Può essere, perché don Sergio era uomo di ampie vedute e ancor più ampie letture. Comunque, quand’anche non l’avesse mai letta, egli mise in pratica una delle lezioni fondamentali di Sontag: l’idea di superare, anzi di scardinare la distinzione tra cultura “alta” e cultura “bassa”.
Provetto nuotatore nelle acque profonde della teologia, dell’esegesi biblica e della filosofia morale, don Sergio era ugualmente a suo agio con le canzoni alpine che molto lo commuovevano, con il teatro amatoriale, le barzellette in vernacolo e il campionato di calcio.
Bisogna intendersi: la frequentazione di don Sergio con la cultura cosiddetta bassa non era il risultato di quelle messinscene abbastanza grottesche che vengono proposte da coloro che hanno bisogno della tovaglia a quadri, delle battute scurrili in dialetto o della canottiera macchiata per fare finta di essere vicini al popolo.
Nel caso di don Sergio, la questione era completamente diversa. Nasceva infatti dall’idea che tutta la cultura, sia quella della letteratura, della musica e delle arti che si richiamano a una serietà tragica sia quella dell’esuberanza popolana, fosse un grandioso mosaico universale dal quale traspirano in forme e linguaggi diversi le grandi questioni di senso che attraversano tutte le esistenze umane.
Quando si parla del primato dell’antropologico nel pensiero di don Sergio Colombo si intende dire proprio questa sua intuizione, sviluppata e applicata in anni di predicazione e azione pastorale: l’idea che nei grandi snodi della vita, del nascere e del morire, dell’amore e della malattia, si aprano squarci interrogativi e bagliori di quella prima stella del mattino che tanto lo faceva commuovere durante ogni annuncio pasquale.
Mi pare di poter dire, senza la pretesa di voler fornire un’interpretazione autoritativa del suo pensiero, che in don Sergio la cultura non sia stata né vacua erudizione né mero strumento didattico inteso in senso verticale, come a infondere la conoscenza in vasi vuoti che attendono di essere riempiti.
La cultura era per lui ricerca di senso alle domande esistenziali, anche angoscianti, che salgono dai luoghi più profondi dell’animo umano, soprattutto nei momenti più difficili e laceranti. La cultura esprime le storie e i temperamenti personali, ma racconta anche le ansie e le aspettative di una determinata epoca e di un determinato luogo.
Si capisce allora perché, per don Sergio, al discernimento cristiano non possa e non debba mancare il confronto serrato, critico e appassionato con la cultura del proprio tempo, con i suoi linguaggi e i suoi esiti, senza rinunciare a portare con coraggio il proprio apporto e le proprie considerazioni.
Serviva allora e serve oggi il coraggio di affrontare linguaggi inediti e temi spinosi non per un vacuo innamoramento della novità fine a se stessa, ma perché è nel dialogo aperto su questi fronti che si rende una testimonianza evangelica a misura della contemporaneità.
Il punto di partenza e di arrivo è una visione impegnata a confrontarsi con l’umano
Il punto di partenza e di arrivo, come appare con evidenza, è sempre quello di una visione ecclesiale profondamente conciliare, impegnata a confrontarsi con l’umano, a vedere il bene e moltiplicarlo, per usare le parole di Giovanni XXIII.
Col senno di poi, è forse fin troppo facile attribuire a don Sergio una dote profetica, o forse solo una grande capacità analitica di anticipazione rispetto tanto allo scivolamento elitario e autoreferenziale di alcuni mondi della cultura italiana quanto al malinteso tentativo di “progetto culturale” della Chiesa italiana nei primi anni Duemila.
Mi pare proprio di poter dire che per don Sergio Colombo, particolarmente negli anni in cui ho potuto meglio conoscerlo e comprenderlo, il senso della partecipazione delle persone credenti ai mondi della cultura non avesse per obiettivo un’improbabile riconquista di una posizione di egemonia culturale cattolica, ma la capacità di stimolare una riflessione profonda, di fornire e far maturare strumenti di comprensione e interpretazione del mondo contemporaneo. Insomma: il famoso discernimento.
Un buon esempio per capire in pratica il rapporto di don Sergio con la cultura viene dall’associazione Le Piane di Redona, che ha recentemente festeggiato il quarantesimo anniversario di fondazione.
Nata da un’esigenza logistica di gestione di alcuni appartamenti costruiti a lato della chiesa minore di Redona, l’associazione è stata concepita dai suoi esordi come il segno di una presenza nel quartiere.
L’idea di fondo era quella di non offrire solo un’assistenza pratica ad alcuni bisogni materiali, ma di tradurre concretamente uno stile di servizio alla persona, in cui la carità non è elemosina pietosa, ma espressione dell’essere una comunità basata sull’intreccio di relazioni e sulla capacità di ascolto.
È a questa associazione che venne delegato l’ambizioso progetto di trasformare il vetusto cineteatro dell’oratorio in una “sala della comunità”, dove quest’ultima si apre al confronto aperto con il resto della città, comprese le realtà al di fuori del perimetro ecclesiale.
Nacque così la sala Qoelet, che già nel nome volle incarnare uno sguardo smagato sul mondo, ironico ma non cinico, aperto sui lati crudi della realtà ma senza cadere nel nichilismo, un luogo di ritrovo e di svago ma anche di “uscita”, in questo anticipando di molti anni uno dei temi tanto cari al pontificato di Francesco.
Può la cultura essere una forma di carità? Per don Sergio certamente sì
Può la cultura essere una forma di carità? Per don Sergio certamente sì, tutte le volte che si mette al servizio dei bisogni dell’umano, o anche solo ne esprime le domande, le lacerazioni e le speranze.
È cultura ed è carità stimolare la riflessione e il confronto sulle grandi trasformazioni politiche, sulle forme dell’economia, sui modelli di consumo sostenibile, o sulle vicende del pianeta, come nel caso della rassegna “Il Lontano Presente” che, distaccandosi da una interpretazione puramente ecclesiale ed eurocentrica del concetto di missione, ha insegnato la necessità di studiare e ascoltare le vicende del mondo contemporaneo, pur rimanendo ben piantati nei “venti metri di strada” di via Leone XIII.
I luoghi della cultura diventano così luoghi di riflessione sulle sfide esiziali dei nostri tempi e sulle grandi domande esistenziali; luoghi capaci di costruire un pubblico di cristiane e di cristiani adulti, pensanti e capaci di ragionamento critico.
Qui forse sta una grande intuizione, se possibile ancora più valida e impellente oggi: misurarsi con la cultura, anzi con le culture al plurale, con i linguaggi della cultura, della musica e delle arti figurative, con la letteratura e la comunicazione di massa, con l’economia e la politica. E tutto questo non per inseguire mode più o meno passeggere o per farsi imbeccare, bensì per creare persone credenti in modo consapevole, capaci di stare nel mondo e non solo nei recessi delle sacrestie. Che siano capaci di stabilire un’interlocuzione seria con chi cristiano non è, nel nome di una comune umanità, delle apprensioni e delle aspettative nei confronti delle città e del mondo che abitiamo.