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Linguaggio per provare a dire la morte

Il dìa de muertos viene celebrato in Messico e anche da noi dagli immigrati messicani. La morte esposta, venerata, festeggiata, con coraggio e anche con ironia. Forse una lezione per le grandi tristezze di questi giorni

Con la nonna al cimitero, tanti anni fa

Linguaggio per provare a dire la morte. Quando ero piccola non potevano passare quei giorni tra fine ottobre e inizio novembre senza che mia nonna mi portasse almeno una volta al cimitero a far visita ai nostri parenti. Ricordo bene quelle giornate, col solito rituale che poi si sarebbe ripetuto negli anni. Complice il giorno o due di vacanza che potevo avere dalla scuola, ero talmente allegra quelle mattine che non vedevo l’ora di mettermi un bel vestito, inaugurare le scarpe invernali e il cappotto e salire in macchina con la nonna per dirigerci al cimitero di Bergamo.

Per me era tutta una festa: la fermata d’obbligo a comprare le fave dei morti col loro profumo di anice, la scelta dei fiori e poi il percorso – sempre lo stesso – che mia nonna sapeva a memoria tra quella galassia sterminata che erano i colombari del cimitero di Bergamo. Per arrivare a trovare, in alto in alto, il piccolo colombario in cui si trovavano le ossa dei miei bisnonni. “Solo le ossa”, mi spiegava mia nonna, “perché ormai sono passati tanti anni”. Era il suo linguaggio per provare a dire la morte.

Poi se ne è andata la mamma. Poi è arrivata la serenità

Negli anni avrei avuto più familiarità con quel posto e, man mano, il clima di festa sarebbe andato un po’ scemando: a partire da quando, all’età di dieci anni, tornai lì in una giornata nevosa di gennaio per salutare la mia mamma. Ci vollero tanti anni per poter tornare in quel luogo con un fare sereno. Nel frattempo avevo provato tutte le emozioni: tristezza, rabbia (quanta rabbia!), dolore. E poi finalmente, inaspettatamente, di nuovo serenità.

Quella serenità fiorì a poco a poco, e mi sorpresi a provarla lentamente, avendo preso l’uso di recarmi al cimitero con Francesco, il mio fidanzato, nei primi giorni di novembre, proprio come nelle mie gite da bambina. Avrei voluto fargli conoscere mia mamma e allora sentivo che, forse, in quello strano posto eravamo davvero un pochino più vicini a lei e a ciò che era stata.

Non lo sapevo, ma avevo appena scoperto il segreto che sta alla base delle celebrazioni del dìa de muertos della cultura messicana: quello di una giornata in cui ci si ferma per raccontare i morti e le loro storie a chi non li ha conosciuti, per tenerne viva la memoria così da consentire l’incontro con chi non c’è più.

E, forse complici i colori caldi delle foglie e gli ultimi giorni tiepidi di sole dellautunno, anch’io quell’atmosfera di festa iniziavo a respirarla.

In Messico, il dìa de muertos

Altare preparato dalla comunità messicana a Bergamo esposto presso la Chiesa di San Lazzaro

In Messico, la festa del dìa de muertos, oggi patrimonio mondale dell’umanità, ha radici antichissime, risalenti alla civiltà azteca e poi intrecciatesi con la tradizione cristiana del 2 novembre. E qui il dìa de muertos è una festa in tutto e per tutto: i colori vivaci, la musica, i balli, raccontano la morte come tutt’altro che qualcosa di cui aver paura.

La morte fa parte della vita e per questo non viene nascosta, ma invece esposta, decorata, omaggiata e persino festeggiata. Me lo spiega bene Vanesa, che da alcuni anni si impegna a preparare per la comunità messicana presente a Bergamo e in provincia un altare dove il ricordo dei morti possa dar vita a una vera festa.

Il lavoro di preparazione è lunghissimo ed ha inizio un anno prima della celebrazione, ma ciò che motiva Vanesa è consentire alla comunità messicana di vivere la ricorrenza di questa giornata importante. Se ci si trova fuori dal proprio Paese, infatti, ricordare le proprie origini, le proprie radici e le storie delle persone che ci hanno preceduti e poterle trasmettere alle generazioni successive è davvero essenziale.

Come l’altare preparato da Vanesa, anche gli altari tradizionalmente allestiti dalle famiglie per i propri defunti contengono immagini e simboli che ricordano i morti della famiglia e las ofriendas, cioè le offerte di cibo e bevande, ma anche vestiti e altri oggetti, predisposti dai parenti per ciascun defunto, secondo la sua storia ed i suoi gusti. Anche questo è, a modo suo, linguaggio per provare a dire la morte.

La defunta Catrina

“Calavera Catrina”, di Josè Guadalupe Posada

Se è vero che in questo giorno non si ha timore di rappresentare la morte, l’emblema della giornata è proprioCalavera Catrina”, letteralmente, la defunta Catrina. Fu creata agli inizi del Novecento dal lavoro dell’artista satirico Josè Guadalupa Posada, che coi suoi lavori avrebbe influenzato niente di meno che Diego Rivera e Frida Khalo. Posada diede un posto d’onore nella sua arte, tutta volta a raccontare la classe lavoratrice, le diseguaglianze e le sofferenze del popolo, proprio al tema della morte. “La muerte es democratica”, scriveva infatti. E, nel 1910, quando consegnò alla tradizione la sua “Calavera Catrina”, commentò la sua opera dicendo “a fin de quentas, güera, morena, rica o pobre, toda la gente acaba siendo calveras”. In fin dei conti, cioè, tutti siamo Catrina: bionde o more, ricche o povere, tutte le persone finiscono per essere teschi.

Oggi, nelle feste per le celebrazioni del dìa de muertos, Catrina è un elemento essenziale, tanto che quasi sempre viene organizzato un vero e proprio contest per il miglior travestimento da Catrina che le partecipanti realizzano e indossano.

Insomma, il dìa de muertos per la comunità messicana è l’occasione per raccontare, rappresentare, esporre e non temere la morte. Con coraggio e spesso ironia. Perché solo se troviamo dei linguaggi per dire la morte, allora ce ne riappropriamo, come qualcosa di essenziale per la nostra esperienza umana. Allora, forse, anche la morte nella sua (normale) tragicità potrà farci un po’ meno paura. Mi chiedo se anche le nostre nonne la pensassero così, in quelle gite al cimitero nei primi di novembre con aria di festa!

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