Il prete e la morte. Rapporto difficile

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Con l’inizio di novembre ci si sente invitati a pensare alla morte e a quello che speriamo per il “dopo”. Ma parlare della morte è diventato difficile. Anche per il prete

Il prete e la morte. Rapporto difficile. Infatti, e lo si vede soprattutto in questi giorni. Ci avviciniamo alla Solennità di Tutti i Santi e, il giorno successivo, alla Commemorazione dei fedeli defunti. Tema delicato e complesso, quello della morte in relazione con la nostra pastorale. Non essendo un teologo, l’unica cosa che posso fare è provare a leggere la realtà con gli occhi del prete di parrocchia. A partire dalla realtà proverò a sussurrare qualche impressione.

A Montecarlo i funerali si fanno di nascosto

Due dati di realtà, innanzitutto. Il primo: il racconto di un amico che conosce la realtà di Montecarlo. Le diverse volte che ho visitato il Principato di Monaco (per me, appassionato di macchine, un paradiso molto terrestre!) mi ha sempre stupito un fatto, forse apparsomi significativo per “deformazione ministeriale” (no, essere prete non è una professione!). Mi ha colpito il fatto che… non ho visto l’ombra di un funerale né un segno di lutto da alcuna parte.

L’amico che frequenta quei luoghi mi ha raccontato che non si usa nel Principato mettere segni particolari per un lutto e, solitamente, le esequie si celebrano quando il cielo inizia a diventare buio per la sera.

Perché? Beh, nel luogo dove tutto deve essere bello, nel paradiso del lusso all’ennesima potenza, dove se hai una carta di credito un po’ diversa da quella del curato di Grumello e Telgate puoi permetterti (quasi) tutto… Non sia mai che un carro funebre ti rovini il senso di onnipotenza! Eh sì, perché la morte, che il carro funebre con il feretro ti sbatte in faccia, ti ricorda che il tuo conto corrente nulla potrà, quando sarà la tua ora. Meglio dunque non pensarci: la bara dorata e la tomba imponente possono aspettare.

La mamma vuole vedere il suo bambino morto 50 anni fa

Il secondo dato. Due settimane fa, ci sono state le estumulazioni a Telgate. In paese, per i parenti è possibile recarsi al cimitero per assistere a queste operazioni. Vi si è recata anche una mamma, oggi anziana, il cui bambino è morto, per un incidente domestico, a soli tre anni, più di cinquant’anni fa. Voleva rivedere il suo piccolo. Qualche osso, la piccola testolina del bambino e qualche brandello del vestitino con cui con amore era stato rivestito, nulla di più. Ma è suo figlio e lei voleva vederlo.

Mi ha commosso il suo racconto: per una mamma non esiste dolore più grande di questo. Ma lei non poteva mancare: quei poveri resti erano frutto del suo grembo e bisognava esserci, per una preghiera.

Noi preti non dobbiamo avere fretta di parlare di Risurrezione

Ecco, due estremi opposti, dalla morte eliminata dalla vista e dal pensiero, alla morte che, seppur faticosamente, viene integrata nella vita, come suo atto supremo e necessario. Personalmente, ritengo la pastorale debba prendere atto di questi passaggi. Anche la pastorale, nella predicazione, nella catechesi, nei diversi incontri, sul tema del morire fa fatica. Commettendo un errore in particolare, credo. L’errore di avere fretta di parlare della Risurrezione. Per questo motivo soprattutto mi sembra di poter giustificare il titolo: Il prete e la morte. Rapporto difficile.

Attenzione, chiarisco: la Risurrezione costituisce certamente il centro della nostra fede e della nostra speranza, ma non esiste la Risurrezione senza il momento drammatico del morire. Va evitata la tentazione di correre verso la Pasqua saltando a piè pari il Venerdì Santo. Non si può, si falsifica tutto. La morte c’è, è drammatica per chi la vive accorgendosene e per chi vi assiste e continua a vivere convivendo con il vuoto della mancanza. Fa male la morte, lacera, distrugge.

Eppure, è proprio nello spazio della lacerazione e della ferita che si apre lo spazio della luce, la luce della Pasqua, la luce del Risorto che ci fa vivere per sempre con lui.

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