Lizzola/L’infanzia nei corpi

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Lizzola/L’infanzia nei corpi

Custodire l’umano/Il corpo, all’inizio, è stato essenzialmente corpo di affetti.
Nel senso che ha sentito; ha ricevuto; e ha sopportato.
Ha sentito suoni e rumori, tocchi e sapori, e altri corpi…
Ha ricevuto cure e cibo, nenie e attenzioni, e qualche trascuratezza…
Ha, anche, sopportato rumori e fame, disattenzioni o strette, tensioni e  fastidi…

 

Corpo di affetti, cioè di “affezioni”, e un poco di afflizioni: il mondo, gli altri corpi si sono fatti vicini e noi, piccoli, ne siamo stati curati e “investiti”. Questi affetti ci han fatto sentire il corpo, di più: ci han fatto sentire di essere il nostro corpo. Si è costituito, così, il nostro sistema immunitario e insieme il nostro sentire. Un sentire sempre più ampio, e profondo.

Gli altri corpi, e il mondo, hanno “abitato” il nostro corpo: sempre più ricchi, e più distinguibili. E il nostro corpo, in un modo sempre più ricco e capace di distinguere, sentiva e rispondeva ; sentiva e modulava ritmi e armonie di sorrisi e di suoni, di gesti e di parole. “Corpo a corpo”, nell’affetto. Oppure reagiva, e “si faceva sentire”, o si difendeva. Un poco, anche,  provava a prendere; un po’ risentito, un po’ vorace.

Il corpo aspetta, non sopporta la mancanza

Nel corpo si  costruisce  e si narra la storia delle sensazioni e degli affetti, dei bisogni e dei desideri. Il corpo chiede soddisfazione perché la mancanza venga riempita, la tensione venga spenta e appagata. Tutto diventa oggetto e consumo di un corpo “affamato”. Corpo di bisogno.

Il corpo sogna e si tende, aspetta e si distende. Apre le braccia ma non stringe troppo, cerca l’altro e cerca altro, per camminare insieme, per sperare, per generare. Corpo di desiderio. Tutto diventa attesa e affidamento, tenerezza e fremito d’un corpo: “nell’Aperto”.

Il corpo di bisogno vuol chiudere il tempo: non sopporta la mancanza. Non può, a volte non lo cerca neppure. Il corpo di desiderio vuol tenere aperto il tempo, vive la speranza e la sorpresa, serba il dono di ciò che manca.

Sa della distanza e del rispetto, e non ne soffre perché la danza del dono e dell’incontro – ha fede – si darà. Si darà di nuovo. Danza feconda e amante, storia di rimandi e di cure, di progetti e di dialoghi, di abbracci e di distanze. Che non sono separazioni ma distanze del rispetto e dello sguardo, dell’identità e del legame. Come tra chi si ama, chi sposa, tra chi genera o ci ha generato. Tra padri e figli. Tra amici fraterni.

Il corpo può sentire solo per sé

Ma il corpo che accarezza può stringere nel palmo, il corpo che danza può violare per piacere. In mille modi, e nei luoghi più quotidiani. Il sentire profondo del corpo dell’infanzia va alimentato perché prenda forme in storie di amore e di cura, in danze gioiose e in presenze fedeli nella prova. In slanci giocosi e ridenti e in resistenze e rese all’infragilirsi e al consumarsi nei giorni.

Il sentire profondo nel corpo dell’infanzia ripara il corpo dal sentire solo sé, reattivo e prepotente, violento e angosciato dall’avvertire il suo morire.

Può non riuscire a portare questo sentire la sua ombra e può volere negarla, e farsi cieco e sordo, cercatore di solo piacere, di possesso, di off limits. Senza più gioia, in sola pulsione, per non sentirsi finito si riduce sfinito.

Il corpo del sentire profondo è corpo del piacere gioioso, è il corpo che sa sentire il gemito e il finire. È la bellezza, il piacere del dono d’un corpo vicino; e la bontà, il piacere d’un corpo che ti difende o sorregge.

È la verità, il piacere di un corpo che non ti lascia e ti fa da specchio: tutto questo è la promessa e la speranza del  corpo degli affetti, del corpo dell’infanzia. Perché tu legga le luci e le ombre del tuo volto, quel volto da lui/da lei desiderato e rispettato

Perché siano mantenute – promessa e speranza – ci vuole leggerezza. E ci vogliono incontri, buoni incontri. Sono gli incontri che aiutano a orientare tensioni e energie, a far sentire capaci di parole o di gesti, nell’incertezza e nella fragilità. Corpi a corpi che accompagnino a non temere troppo di essere, crescendo, un poco più “esposti”, non più protetti come prima. Più soli, anche, più soli con la forza dei bisogni e delle emozioni dentro.

Come tenere e trasformare la forza,  e il conflitto che il corpo ospita? Occorre un incontro per dare parola a ciò che si sente: alla solitudine, al desiderio, alla vicinanza, alle separazioni temute.

Il corpo cerca la parola

Il corpo cerca la parola, la forma di pensiero per ciò che abita nel corpo delle ragazze e dei ragazzi, è passaggio necessario, altrimenti tutto rischia d’essere subito, o solo agito.

Emozioni e moti interiori si esprimono e finiscono (sfiniscono) nell’azione, nel gesto. Anche il dolore, o l’ansia. Anche il desiderio. Dentro di loro le ragazze e i ragazzi portano, e apprendono a conoscere, energie forti di un “fare sul serio”. Tutto ciò va ben simbolizzato, per essere bene praticato.

Corpo subíto, corpo agito, corpo simbolizzato: il corpo giovane che si dilata nel mondo e nella vita, vive generatore e mortale, abita il tempo e il senso. Può ben essere il corpo che accomuna e affratella.

In un tempo in cui si esalta la relazionalità a volte  pare prosciugata la fonte di significati, del gusto del vivere e dell’incontrarsi, la creazione e il ritrovamento di sé in relazioni significative, perché corpo a corpo vero, nella bellezza; relazioni vissute in presenza.

Fisiche accoglienze reciproche,  tenerezze e urti giocosi. Riconosciute e  corporee tensioni ed espressioni dell’infanzia serbate nei corpi.

L’estrema passività dell’infanzia gioca ed espone in affidamento e recettività, nel corpo a corpo; e permette il crescere, il definire l’identità, una storia, la costruzione di immagini.

In infanzia “ci si sente irradiare dal mondo” e non si sente l’esigenza di appropriarsene. Le cose sono semplice esperienza di stupore e meraviglia.

Il corpo ritrova l’infanzia. O la perde

Ma in una sorta di nuova infanzia ci troviamo quando il nostro corpo torna a vivere l’estrema passività, l’impossibilità, il deficit, la cronicità, l’estrema debolezza o la restrizione. Anche lì in recettiva infanzia, senza possesso e presa sulle cose; anche lì gemiti e fremiti del corpo, soltanto.

I gemiti, ora più evidenti e consapevoli, nel confronto con altri corpi, capaci di ospitare e di dar corso ai desideri e agli slanci, ai fremiti. E il nostro corpo, più “passivizzato”, a volte ”infantilizzato” dagli sguardi degli altri e dai loro gesti (a volte anche da quelli più vicini e quotidiani). Ad esso, a noi nel limite, il mancato riconoscimento del fremito (di libertà, d’amore). Schiacciato, allora, in una infanzia, che non può, che non riesce a farsi nuova.

Comunque sia che il deficit o la pesantezza e l’ombra del corpo mi segnino per un tratto, sia che siano un segno e una forma, la prima infanzia, con le sue leggerezze, e la sua esposizione, è perduta.

La prima infanzia resta perduta da quando la parola, la conoscenza, la relazione hanno immesso nel gioco del progetto, del desiderio, del conflitto. La parola ha ormai legato, promesso, e separato, tradito. Nei pensieri e negli affetti abbiamo condiviso e preso, spaccato e perdonato.

La “nuova infanzia” si apre dopo e da dentro il tempo in cui siamo entrati lasciando la prima infanzia. E si dà a volte nell’incanto, a volte nell’esperienza del limite, della colpa. In tutti i casi si resta senza parole.

Il corpo che non regge più

Fremiti e gemiti: lì è più difficile la parola, lì le nostre parole si sospendono e, appunto, provano la loro incapacità, la loro inconsistenza. Però è lì che si possono salvare le nostre parole dalla tentazione di avere sempre capacità e consistenza, di essere sempre risolutive, di essere parole capaci di imprimere il significato sulla realtà, appunto di comprenderla rappresentandola sempre.

Nella povertà della nuova infanzia e nel forte impaccio dei corpi, le parole non riescono, spesso, ad articolarsi. Allora hanno la grande occasione di provare, forse di nuovo, a sentire quel silenzio della vita dal quale una parola capace di accogliere i vissuti deve continuamente tornare a nascere.

Ma le nostre parole vogliono segnare troppo, vogliono prendere, spiegare, rivendicare diritti, emancipare. Disimparano presto ad essere “parole ciotola”, parole nelle quali raccogliere la vita per come si dà.

Forse solo nella passività del corpo che non regge (più), nei luoghi che noi costruiamo per ospitare le esperienze dell’umano, dell’umano fragile, dell’umano vulnerabile, lì è possibile, forse, re-imparare l’ascolto del silenzio e del gesto in un corpo a corpo che serbi dignità, rispetto, fiducia.

Sguardo che sia riguardo, regarder. E imparare, sentire il senso di parole delicate che provano ad ospitare i vissuti.

Vedi anche, di Lizzola:
I bambini e le grandi domande
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