Da visionario che ascolta e contempla, egli scrive il suo messaggio-testamento: il libro dell’Apocalisse, compiendo un’operazione ben precisa: “alza il velo” (è il senso etimologico del verbo apó-kalýpto) sul presente della storia, sull’azione di Dio che è sempre giudizio. Ne uscirà un testo che non è né una narrazione storica né un discorso teologico, difficile e oscuro, con visioni enigmatiche, cifre misteriose e cupi tormenti che a prima vista pare confondere il lettore impreparato.
Eppure Giovanni, o un membro della sua comunità, oltre a rifarsi ad un genere presente nella letteratura giudaica e biblica, da credente, compie un’operazione profondamente calata nel proprio contesto: rilegge la possibilità di salvezza in un tempo di forte transizione per i primi cristiani, le cui pratiche erano considerate “sospette”, in quanto poco affini al culto divino dell’imperatore romano.
Leggere la storia con gli occhi della fede è “scrivere” l’Apocalisse
Scrive un testo nel quale raccontare la fede in un tempo di crisi. Perché ogni tempo, soprattutto i tempi di fatica, possono, e nella fede devono, essere “rivelativi” della storia della salvezza nonostante le trame complicate delle storie degli uomini.
In fondo, leggere la storia con gli occhi della fede è “scrivere” l’apocalisse. Che è un genere letterario che sorge nei periodi storici nei quali valori come il rispetto della vita e la ricerca della giustizia sono profondamente violati, e vengono combattuti con violenza i gruppi e comunità che li vivono e difendono. In nome del potere, gli imperi diventano assoluti e divini, e combattono le comunità che si edificano sulla fede e presentano cammini alternativi.
Alcuni, preoccupati del loro potere, ricchezza e dottrina, accettano l’ideologia dell’impero e si adattano alla mentalità corrente della società. Altri si sentono sfidati da questa aggressione alla vita. Generalmente è una minoranza che assume la propria debolezza e impotenza di fronte al potere che la vuole schiacciare. Questi, sorretti dalla fede nella vita e nel Dio della vita, elaborano una mistica e una spiritualità che affondano le loro radici nei movimenti di resistenza del passato, bevono alle fonti della loro saggezza e generano una spiritualità nuova capace di resistere al dragone di turno.
La fortuna del genere (l’apocalittica è uno dei pochi termini teologici ad essere stati assunti nel linguaggio dei mass-media) sta indicare quante volte i credenti si sono misurati con le difficoltà della storia e hanno cercato di scorgervi le tracce di Dio.
L’Apocalisse vuole che la comunità dei credenti si sappia pronunciare sulla propria storia
Quello che è certo è che l’Apocalisse non è un libro che vuole parlare delle cose ultime, ma vuole parlare del presente, vuole che la comunità si sappia pronunciare sulla propria storia. Che cosa sta succedendo attorno a noi? Come possiamo dare una risposta e anche una lettura degli eventi che accadono? Possiamo dire qualcosa o non sappiamo niente? Siamo smarriti, sconcertati, possiamo dire anche il nostro pensiero sugli eventi, anche se questo pensiero non coincide con il pensiero ufficiale?
E questo non è solo il problema di Giovanni e della sua comunità.
La questione non è di poco conto e torna spesso nell’azione di discernimento dei cristiani per il loro modo di essere nel tempo. Come stare nella crisi? Le risposte sono necessariamente plurali ed è singolare come la lettura e l’interpretazione del testo dell’Apocalisse abbiano costituito fondamento per letture più diverse e disparate.
Qualcuno ha usato il testo come giustificazione per la scelta dell’arroccamento come forma apologetica e identitaria. Altri come un giudizio definitivo sulla storia, intesa come luogo di perdizione e di morte sul quale incombe il verdetto definitivo di Dio. Altri ancora, specie in America Latina, come un giudizio sul presente che guarda con speranza al futuro. Altri infine scambiano l’Apocalisse per il libretto rosso dei pensieri di Giovanni, come se fosse cioè un incitamento alla rivoluzione contro l’impero romano e da questo deducono un giudizio tranciante sulle Bestie che infestano la storia umana.
Una rilettura stimolante dell’ultimo libro della Bibbia viene fatta da molti anni a questa parte da padre Alex Zanotelli, comboniano che nei giorni scorsi ha compiuto 85 anni. Padre Alex è stato per diversi anni direttore di Nigrizia, poi missionario a Korogocho, una baraccopoli vicino a Nairobi, in Kenia, e ora vive – testimone scomodo del Vangelo – nel quartiere Sanità a Napoli. A suo avviso,
se il profeta venisse nel nostro mondo, credo vedrebbe la Bestia in quello che oggi è l’ impero: le corporazioni finanziarie che spostano migliaia di miliardi di dollari al giorno decidendo i nostri destini. Vedrebbe la tragedia del riarmo continuo. Vedrebbe il ritorno all’ atomica. Un’ enorme macchina militare. Vedrebbe un mondo apolide, un abbraccio tra armi e finanza senza bandiere né nazioni. Oggi il Nord e il Sud del mondo sono ovunque. Per i poveri di Nairobi, dove ho lavorato, la Bestia sta lì accanto. Nelle ville miliardarie di Mushtaiga. Uno scandalo, a pochi metri dalla disperazione delle township.
Padre Alex lo dice con forza:
Apocalisse non significa disastro! Leggerla così significa sminuirla, banalizzarla. Apocalisse non è il disastro, non è la nube gialla. E’ lo strumento per capirli. Apocalisse è, etimologicamente, svelamento. Essa svela, mette a nudo appunto l’ impero. E’ il tentativo di un profeta di leggere Roma e di offrire agli ebrei, cioè agli sconfitti, un testo di speranza e di resistenza. Sanciva un’ idea di Israele come comunità alternativa agli imperi. Ma Roma non è nominata. Come Daniele e Zaccaria secoli prima, Giovanni si esprime in codice. Non nomina mai Roma, parla di Babilonia. Deve farlo, per evitare repressioni armate. E non inventa nulla. Si limita a sublimare i vecchi testi applicandoli alla situazione nuova: Roma e la sua superpotenza militare globale.
Giovanni non nomina mai Roma. Deve farlo per evitare repressioni armate
Come, ad esempio, le sette trombe. Simboleggiano ciò che l’ impero fa alla Terra. La quinta e la sesta annunciano l’ astro che cade dal cielo e le cavallette enormi col volto umano. Sono un’ impressionante allegoria delle legioni romane. Le quali poi sono sconfitte dal Dio dei giusti. Ecco, l’ Apocalisse dice: nonostante le armi, l’ impero è debole, imperfetto. Crollerà. La Bestia viene abbattuta. Ma Roma non è la Bestia. E’ la prostituta cavalcata dalla Bestia. E’ un’ istituzione posseduta dalla sete di conquista e di denaro. E’ la ricchezza di pochi che si regge sullo sfruttamento dei tanti.”
“E’ straordinario – conclude padre Zanoteli – che Giovanni veda questo nel momento dell’ apogeo dell’ impero, alla fine del primo secolo. Pochi decenni dopo Virgilio, dopo la grande mitizzazione costruita con l’ Eneide. Anche le grandi persecuzioni erano finite ma proprio per questo Giovanni ha ancora più paura. Sente il rischio dell’ assimilazione silenziosa all’ ethos dell’ impero. L’ immagine della seconda bestia che esce dalla terra è proprio questo: l’ uso che Roma fa delle religioni dominate. Uno strumento di consenso. Le benedice tutte pur di durare”.
Gli chiedo: “L’ Apocalisse incita alla rivoluzione?” “No, la resistenza armata la facevano i Maccabei. Gli apocalittici si limitavano a tenere desto il sogno, l’ utopia del cambiamento, la speranza della fine dell’ impero, l’ idea dell’ ecumene, della Terra che è di tutti. Un sogno che come Chiesa non dovremmo abbandonare”.