Pietà si chiede quando una distanza radicale o una netta asimmetria di potere e di diritto paiono separare, solo separare. Quando siamo del tutto in balia della forza, o abbiamo perso dignità e diritti nella condanna e nel disprezzo; o quando, impotenti e feriti, siamo imprigionati nel corpo malato, allora supplichiamo: “pietà!”.
Riapriamo le braccia, nella resa, chiniamo il capo e attendiamo, senza più resistenza. Nella piccolezza, nell’ombra: cercando braccia paterne. “Pietà di noi, Signore!”. Il corpo assume la stessa piegatura china, quasi prostrata, davanti a chi è caduto nel basso, a chi è appena nato, a chi è morente; la stessa piegatura come di fronte all’Altissimo.
Lo stesso movimento, nella pietà, verso il basso o verso l’alto: cercando una benedizione che ci sostenga, capaci di mantenere la promessa di vita. “Tu hai pietà di noi”, ci senti e ci tieni nel sentire l’altro, affratellati. Nella pietà siamo messi al mondo, come da una luce aurorale. Quando riappaiono la vulnerabilità e le mendicità è la pietà che ci mantiene nella matrice originaria della vita con la mente e col cuore.
È all’interno di una Terapia Intensiva d’eccellenza, in una clinica universitaria, prestigiosa, che ascolto parole impreviste: “credo che sia importante stare male, stare un po’ male per il paziente: credo anche di gestire le situazioni e di decidere meglio se sento la sofferenza… e, certo, se la sopporto condividendola con gli altri dell’équipe”.
Non sono, dunque, le macchine che dettano le decisioni in quelle situazioni frequenti nelle quali le diagnosi stesse e le prognosi restano aperte, incerte. “Sentire le persone, sentire la famiglia è, a volte, un pezzo che mi manca”: e la dottoressa non intende per sentire il consultare, l’avvisare, l’informare. Vuol esprimere piuttosto un sentire dentro, un pensare e un agire in presenza, un applicare i protocolli con interventi “misurati” dal sentire la rete di relazioni e di storie. Sentire, e stare un po’ male; nell’incertezza, pur con alte competenze e raffinate possibilità d’intervento sia sull’emergenza, sia su situazioni fortemente compromesse. Sapere e limite, speranza e responsabilità. Pudore, alfine: pietà.
La vulnerabilità – di chi è ferito nel corpo, di chi è scosso nei sentimenti e nelle relazioni, di chi porta saperi, tecniche e capacità raffinate – richiama a una sobrietà del fare, del conoscere, del sentire. Sobrietà nella quale si gioca il valore, il significato e la giustizia, in una parola l’umanità delle presenze, dei gesti, dell’incontro tra donne e uomini.
Sentire l’altro: attenzione anzi discesa ai luoghi più segreti dell’essere, las entrañas, le viscere. Con un “sapere dei sentimenti” che
è andato via via immiserendosi. […] La liberazione è allora nella pietà, la matrice originaria della vita del sentire […] Ma la pietà non è filantropia, né compassione.
María Zambrano suggerisce che la pietà “è qualcosa di più: è ciò che ci consente di comunicare.” È la pietà dalla quale ci sentiamo avvolti e che ci fa reggere piccolezza e fragilità. Davanti alla ferita dell’altro, al suo morire. Trovando la parola, “sola parola”, parola nascosta dopo essere rimasti senza parole. Oltre le competenze, i saperi, oltre il pensare. E, così, sentire l’altro e sentire il pensiero nostro. Pietà non è parola concetto, è parola che fa concepire.
Assumere uno sguardo povero, nella pietà, apre gli occhi all’intelligenza, perché intraveda qualcosa. Occhi poveri, capaci di “rimettere i debiti” che carichiamo sulle spalle degli altri quando non corrispondono alle nostre attese. Quando resistono, non esaudiscono nostri desideri, quando non rispondono ai nostri richiami, ai nostri interventi, alle nostre attese.
Occhi poveri sono anche quelli che sanno di non potere vedere tutto dell’altro, non possono su di lui: fossero pure mossi dalla massima benevolenza. L’altro, il suo corpo, la sua psiche sempre possono sottrarsi, sfuggire, segnando la mia impotenza, il mio fallimento. Obbligandomi a chinarmi: pietà di me!
Saper trattare con l’altro – conoscere la pietà è questo per María Zambrano – chiede il saper trattare il mistero. Il mistero della nostra altezza e della nostra bassezza: saper portare il senso di inadeguatezza, d’ambiguità, a volte anche di indegnità in noi. E il Mistero, che la salva, di una Pietà che ci prende come nel palmo di una mano, in cui confidare. Pietà che ben conosce la nostra fragilità, la nostra ombra, la nostra limitatezza, come di un padre e una madre che attendono.
Pietà di noi perché ne possiamo essere testimoni. La vita è “superficiale” se ricondotta alla storia, al calcolo, alla necessità, alla morte biologica. Cessa di esserlo se la pietà la rende promettente, attraversata da trascendenza, luogo di cura, di bellezza, di relazioni buone, di capacità di nascita anche nella sofferenza. Pietà: trascendenza nel basso, scendere nelle viscere. Perché lì le donne e gli uomini avvertono sul limitare del male assoluto, dell’avvelenamento e della misera, la incredibile possibilità d’uno sguardo d’amore, pietoso. Se non la realtà, certo la promessa di bontà e bellezza.
Un poco sentiamo, a volte, nel fondo di noi stessi una sorta di “senso di colpa” senza che ci siano imputabili colpe, o responsabilità. E quasi chiederemmo perdono! Una cara amica, oncologa di fama internazionale, scriveva di “un curare che spesso è solo un agire senza speranza”.
E aggiunge “Navigo a vista, in scienza e coscienza”: E questo che porto “è un peso che aumenta sempre più, che mi cambia profondamente”. Curati e curanti si scoprono “dopo tanti anni compagni di viaggio… insieme con zaini diversi. Anche nello sbilanciamento il carico è grave per entrambi”. Ed il ricordo di Milvia va al dialogo di un bellissimo film di anni fa, in cui alla domanda: “Qual è il primo dovere di un medico?” viene risposto: “Il primo dovere di un medico è chiedere perdono!” Milvia che così attentamente cura ogni incontro con ogni paziente, specie di quelli per i quali “non c’è più niente da fare”
Ma non riusciamo da noi stessi, soli, a sperare. Specie contro ogni speranza. Ci vuole pietà per sperare che la vita vinca l’ansia, la paura, il risentimento, o la fascinazione del nulla. Ci vuole pietà per sperare, per ristabilire la presenza reciproca, in benevolenza, in fraternità. Sempre – un poco o profondamente – incerta e ferita. L’incontro tra noi è sempre una ferita ci ricorda lo psichiatra Eugenio Borgna.
Anche nella speranza si resta privi di parole: non può avere “ragioni”, parole o pensieri che la giustifichino e la sorreggano. Si è ridotti a sola speranza quando dopo le parole del giudizio, della condanna, della diagnosi infausta, della sanzione di un fallimento, si resta nel silenzio.
Solo la pietà resta, donata nello sguardo e nel gesto di chi, dopo, si volta verso il volto del segnato da condanna. Che può riprendere a parlare con se stesso, a sentire la cura. Sperare: continuare a riprendere a sentire la cura, a sentirsi nella pietà.
Un detenuto, più volte recidivo dopo l’ennesimo inganno e la rinnovata violenza, dopo un lungo silenzio sussurra piano al cappellano, muto, dallo sguardo ora deluso, dopo anni: “mi faccio schifo, sì, ma se anche tu non credi più in me, allora è finita davvero. Non c’è speranza”. Solo la pietà può recuperare la promessa. È ciò che resta, nel silenzio, come la parola nascosta. Pietà di me, di noi! E darne testimonianza.
Testimoniare, farsi testimoni può esser questo: non essere testis ma super stes. Non nella condizione di “dire la verità” nel processo, da fuori, ”oggettivamente”. Questo, al più, fa giustizia. Ma nel sentire la prova di donne e uomini nelle fratture della vita, delle relazioni dell’anima. Stringendo ciò che resta di un uomo, di una donna di fronte all’estremo. Quando, come dice il linguaggio popolare, “fa pietà”. Evoca pietà, e la attiva, la fa.
Chiama a fare, almeno un gesto di pietà, e questo gesto può venire, avvenire. Accogliendo nella pietà chi il gesto agisce e chi lo riceve. Infine entrambi lo ricevono.