“Padre” Pierbattista Pizzaballa, cardinale

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“Da laico nella città” – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
Daniele Rocchetti conosce da lungo tempo il nuovo cardinale. La storia di Padre Pierbattista Pizzaballa, il suo ruolo di tessitore di legami nel mondo tormentato e difficile della Terra Santa

“All’inizio non ero molto entusiasta”

La prima volta – quasi vent’anni fa – lo incontrai appena venne nominato Custode di Terra Santa. La redazione di Evangelizzare mi chiese se mi andava, durante un pellegrinaggio che guidavo in piena seconda Intifada, di intervistare questo giovane frate di appena  39 anni, originario di una piccola frazione di Cologno al Serio, da poco nominato responsabile della provincia dell’Ordine francescano dei frati minori che comprende i territori di Israele, Palestina, Giordania, Siria, Libano, Egitto, Cipro e Rodi.

Essenziale, senza molti fronzoli (in questo davvero “bergamasco”), generoso e disponibile

Lo feci con piacere e rimasi subito colpito dalla persona. Essenziale, senza molti fronzoli (in questo davvero “bergamasco”), generoso e disponibile (non si è mai sottratto ad una richiesta di incontro, a Gerusalemme o a Molte Fedi, o di intervista), capace con lucidità di cogliere le ricchezze e le contraddizioni della terra che abita da più di trent’anni.

Come ci arrivò me lo raccontò lui proprio all’inizio del nostro primo colloquio: “Molto semplicemente, dopo l’ordinazione sacerdotale, fui mandato lì, a studiare in Terrasanta. Con sincerità, devo confessare che all’inizio non ero molto entusiasta della scelta; preferivo studiare a Roma. Mi ero interessato di studi biblici, e mi sembrava scontato andarci, invece il padre superiore pensava a Gerusalemme.  Ricordo il primo giorno. Era il sette ottobre del 1990. C’era la prima intifada, Saddam aveva invaso il Kuwait e si preparava la guerra del Golfo. Arrivai il giorno in cui morì padre Bagatti, il grande archeologo dei luoghi santi. Lo stesso giorno in cui ammazzarono ventidue palestinesi sulla Spianata delle moschee. Al massimo, io ero abituato a qualche carabiniere con la mitraglietta sulle nostre strade: per la prima volta, vidi sparare e uccidere. E pensai che avevo ragione a non voler venire qui.”

Parroco della comunità cattolica ebraica. Custode della Terra Santa

Padre Pierbattista è stato Custode per un periodo molto lungo (fino al 2016) perché dopo i due canonici mandati triennali è stato riconfermato per ulteriori tre anni nel maggio del 2010 e nel giugno del 2013. Dunque, un uomo di grande equilibrio in una terra che solitamente invita a scegliere subito da che parte stare e sembra amare i partigiani dell’una o dell’altra parte.

Quando gli ho chiesto come è cambiato il suo sguardo sulla Terra Santa mi ha risposto così: “Arrivai a Gerusalemme negli anni Novanta, c’era ancora la prima Intifada ed era proibito sventolare la bandiera palestinese. Tornavo dalla porta di Damasco, una delle sette porte di Gerusalemme, e c’era un militare israeliano che buttò a terra il banco di arance di un venditore ambulante, anziano, palestinese: ci passò sopra con la camionetta. Vedevo gli occhi pieni di lacrime di quel vecchio. In quel tempo, vivevo nel quartiere musulmano della città vecchia e mi dissi che così non poteva proprio andare. Dopo pochi anni, l’esperienza dell’Università Ebraica mi obbligò a guardare in profondità anche l’altra parte. In fondo, ami ciò che incontri, non c’è una amore astratto o teorico, perché ti sei innamorato di quella realtà e di quelle persone che ti hanno costruito e ti hanno aiutato a costruire.

Dopo pochi anni, l’esperienza dell’Università Ebraica mi obbligò a guardare in profondità anche l’altra parte

Fui fatto parroco della comunità ebraica cattolica, traducendo l’ebraico, e poi diventai Custode. Lì, dalle polemiche e dalle tensioni, facendo attenzione alle provocazioni che venivano, capii che mi veniva chiesto di non fermarmi e di fare un passo ulteriore: l’esperienza deve essere anche interpretata. Mi si chiedeva una parola, non neutrale o di equilibrio, ma di verità: mettere la tua esperienza in rapporto a Gesù, cercare di andare a fondo delle cose, senza necessariamente giudicarle; cercare di capirle, accettando anche di non capirle.

Questo è stato il terzo passo, il più difficile, perché quando scegli un campo è molto facile: è gratificante, perché hai un accampamento che ti sostiene. Quando invece sei chiamato a una parola di verità, a trovar modo di accogliere tutti nella tua vita, entrando nella complessità della situazione. Perchè non è tutto bianco o nero ma c’è molto grigio ed è più difficile dare sentenze definitive.

Ci sono molti paradossi, molte contraddizioni, e non sempre si comprendono. In genere si dice che, dopo il primo giorno in Terrasanta, vuoi fare un articolo; dopo il primo mese, vuoi scrivere un libro; dopo il primo anno, non sai più cosa dire. In questi ultimi anni ho capito che bisogna fare il salto, non fermarsi, darsi una lettura che ti aiuti ad andare oltre; che la rabbia che vedi è forte ma non puoi fermarti a quella. Altrimenti gli eventi li subisci e non li vivi, e se li vuoi vivere devi dare la tua vita, e per un cristiano la vita parte dalla croce, che è perdono, è morte, è solitudine, ma che è vita. Se vuoi che ci sia la vita, devi donarla”.

“Amministratore apostolico”, prima. Poi patriarca

Al termine del lungo governo della Custodia, padre Pierbattista pensava di aver assolto il compito e che fosse giunto il momento di ritornare in Europa. Papa Francesco, di sua iniziativa, nel giugno del 2016 lo nomina invece Amministratore Apostolico del Patriarcato di Gerusalemme, sostituendo il Patriarca Foud Twal, dimissionario per raggiunti limiti di età. Una scelta e un compito non dei più facili.  Per le difficoltà, anche economiche, in cui versava il Patriarcato (si parlava di un buco finanziario di almeno 100 milioni di dollari) e che rischiava di portare in poco tempo alla definitiva bancarotta; per la diffidenza di una parte del clero locale che avrebbe preferito l’elezione di un arabo; per la complessità di un mondo, bello da ammirare durante la settimana di pellegrinaggi, ma sicuramente non facile da decifrare.

“Il fondamento della nostra fede è il rapporto con Gesù: se c’è questo, non bisogna avere paura di nulla”

Eppure – e ne sono testimone diretto – è riuscito a farsi apprezzare e stimare da moltissimi. La centratura sulla Parola (una delle cose più belle di mons.Pizzaballa, nel frattempo ordinato Vescovo nel Duomo di Bergamo, sono i suoi commenti alle letture domenicali pubblicate sul sito del Patriarcato Latino), la capacità di ascolto e di giudizio, anche della situazione politica, che lo rendono uno degli interlocutori privilegiati per quanti vogliono comprendere l’intricata realtà mediorientale, lo sguardo di fede con cui interpreta i cambiamenti in atto (“Non bisogna avere paura, di niente. Il fondamento della nostra fede è il rapporto con Gesù e questo rapporto prevale su tutto: se c’è questo, non bisogna avere paura di nulla.”). Per tutto questo, papa Francesco nell’ottobre del 2020, lo nomina Patriarca di Gerusalemme dei Latini, a capo cioè dei cattolici di Giordania, Israele, Palestina e Cipro.

Fino alla sorpresa di domenica scorsa, quando all’Angelus il nome di mons.Pierbattista Pizzaballa è tra i 21 nuovi porporati che riceveranno la berretta cardinalizia nel Concistoro del prossimo 30 settembre. Subito dopo l’annuncio, mons. Pierbattista ha commentato così: “Per me è stato una grande sorpresa. Ringraziamo il Signore e anche papa Francesco. Preghiamo il Signore di rimanere semplici servi del Regno di Dio in Terra Santa”.

Perdono e giustizia

Una scelta che onora certo la Chiesa di Bergamo, onora la comunità francescana che lo ha cresciuto e accompagnato per molti anni. Onora la Chiesa di Gerusalemme di cui  è a capo e che, non dimentichiamolo, è la Chiesa più antica tra quelle cristiane, una delle cinque di fondazione apostolica.

In questi giorni ho ricevuto numerose telefonate di amici cristiani di Terrasanta che mi hanno detto il loro orgoglio per la scelta fatta da papa Francesco. Nello scorso mese di marzo, durante la nostra ultima intervista, gli ho chiesto di raccontarmi il suo sogno sulla Chiesa che è in Gerusalemme. Mi ha detto così: “Noi viviamo in un Paese che si divide sempre su tutto. Diviso certo tra israeliani e palestinesi ma anche – lo vediamo in questi mesi – diviso tra israeliani tra loro e palestinesi tra loro. Sogno che la nostra Chiesa possa essere un segno di unità nella differenza. Vorrei poi una Chiesa che non si limiti solo a dire cosa non va. Troppe volte partiamo unicamente dall’analisi dei problemi, dal senso di lacerazione che ci attanaglia. Credo invece sia necessario – in questo contesto ferito e lacerato –  partire da quella che è la nostra vocazione, la nostra missione.

“Siamo chiamati a dire una parola di verità, ma anche una parola carica di prospettive e, perché no?, di speranza”

Consapevoli che siamo chiamati a dire una parola di verità, senza alcun dubbio, ma anche una parola carica di prospettive e, perché no?, di speranza. Capace sempre di uno sguardo oltre il  dolore presente. L’ultima cosa che sogno è un contributo che solo la Chiesa può dare ed è una riflessione fondamentale qui in Terra santa: la relazione tra giustizia e perdono. Non si può parlare di giustizia senza perdono e, insieme, non si può parlare di perdono senza giustizia. Nessuna prospettiva ci potrà essere se non si mettono in dialogo questi due temi. La nostra esperienza di fede e l’incontro con Cristo  – soprattutto qui nella terra dove custodiamo il Calvario che non è soltanto un luogo di morte e di dolore ma anche di perdono e di giustizia  – la nostra testimonianza devono portarci a dire una parola chiara su questo.”

In fondo, come ama ripetere spesso, la Chiesa di Terra Santa non ha mezzi e non ha potere. Lo ha scritto anche nel suo motto episcopale: “Sufficit tibi gratia mea” (2 Cor 12,9).  “Ti basta la mia grazia”. Che sia così anche da Cardinale.  

Auguri, Mabrouk, caro padre Pierbattista!

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