Dal Vangelo secondo Luca
Le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
E la voce che riempie il silenzio del deserto, con la radicale essenzialità di quella Parola che scelse proprio Giovanni per il suo accadere nella storia e prepararsi una strada, conosce ora una ‘popolarità’ – forse – inattesa. Si parla di folle che accorrono dal Battista e lo interrogano. La voce diviene appello, suscita domande. Ed è già una benedizione. È già Vangelo.
Spesso rischiamo di ridurre il Vangelo ad un prontuario di pratiche edificanti o, ancor peggio, ad un ricettacolo di norme morali… Mi pare, invece, che l’esito della predicazione del profeta presso il Giordano ci chiarisca che “evangelizzare il popolo” è anzitutto risveglio degli interrogativi più veri. E’ innalzamento della domanda ad unico e vero fermento del cambiamento. I rabbini dicevano: “Dio ha creato il punto di domanda e l’ha posto nel cuore dell’uomo”.
Le domande aprono lo spazio per il cammino, per la ricerca personale. Le domande sincere permettono di respirare, di far circolare vita e sapienza. Sempre la tradizione rabbinica dice che ci si avvicina a Dio più con le domande che non con le risposte. La domanda, infatti, ha una forza che spesso la risposta non ha già più.
Lasciamoci abitare, dunque, dalle domande per sentirci costantemente in cammino, per riconoscerci incompiuti e bisognosi di mutamento. La domanda ci spinge oltre quel che siamo e oltre ciò che pensiamo – o ci illudiamo – di aver già raggiunto. Essa affiora dalla consapevolezza che c’è un altrove che ci attende e verso cui siamo diretti; il presente non basta a nessuno, c’è sempre un ‘di più’ di impegno e di responsabilità da assumere.
“Cosa faremo dunque?” Per tre volte risuona, in questi identici termini, l’interrogativo che inquieta gli animi delle folle, dei pubblicani e dei soldati. L’invito di Giovanni alla conversione smuove nelle singole coscienze il sentimento della propria insufficienza e inadeguatezza.
Se ti chiedi: “che devo fare dunque?”, significa che ti sei lasciato toccare nell’animo. È dichiarazione di una inadempienza, ammissione di un vuoto che deve, prima, essere ascoltato e poi colmato, riconoscimento di una distanza da superare.
E a sorprendermi sono, poi, le risposte del Battista. Ti aspetteresti toni più duri, appelli più severi, richieste più radicali ed esigenti, invece… Offre itinerari percorribili, alla portata di tutti; calati nella concreta situazione degli interlocutori. Fate parte, con chi è bisognoso, di quel che avete in eccesso; non esigete più di quanto vi è stato fissato; non esercitate violenza.
Percepisco un filo che lega queste tre risposte, quello della giustizia. Questo ci è chiesto: dare vita a relazioni più giuste nella società. Una giustizia che si incarni nella solidarietà, nell’equità e nella nonviolenza. Se non c’è questo vangelo della giustizia tutto diviene illegittimo e inconsistente. Si può davvero si deve annunciare il vaglio della giustizia e il fuoco dell’amore.
Non è possibile aspirare ad una vita cristiana se non si ha una profonda aspirazione alla giustizia. E ad una giustizia che scenda al concreto. Nuovamente Ernesto Balducci ci richiama:
Ogni boccone che mangiamo è avvelenato dalla fame nel mondo! Non ci è più lecito essere allegri e spensierati. Il rigore della giustizia è il nostro tributo alla storia. La grande crisi dell’annuncio evangelico è nell’inconsistenza del suo preliminare, cioè il Vangelo di giustizia. Non si può andare in giro per il pianeta e parlare di Vangelo, se non abbiamo fatto prima questo annuncio. Ci sono forme di felicità abusive nel loro intimo perché sono vissute senza aver attraversato il vaglio della giustizia. La gioia a cui aspiriamo, infatti, esige la giustizia, senza di che essa è finzione e offende il cuore degli oppressi.
Insomma: nella gioia evangelica si entra attraverso la cruna dell’ago. Ecco perché non si può parlare del Vangelo senza turbare le coscienze. E questa giustizia si declina anzitutto nell’attenzione all’altro. E’ necessario cominciare a rimettere l’altro al centro dei nostri interessi e renderci conto che ciò che abbiamo in più è ciò che manca all’altro. Si tratta di assumere la logica dell’alterità e dell’empatia. E così diventare davvero capaci di dare.
E’ questo il verbo cardine di quel primo passo richiesto alle folle e quindi a tutti/e e a ciascuno/a di noi. Siamo creati e pensati per donare, spartire e condividere:
Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici…
Sono i piccoli gesti del quotidiano che possono tracciare un segno di reale cambiamento nella nostra vita. È la ferialità laica del nostro vivere ad essere interpellata; siamo chiamati a restituire un volto umano alle singole scelte di ogni giorno, ritessere il mondo della fraternità e prodigarci per una terra di giustizia. Ancora una volta: il vaglio della giustizia e il fuoco dell’amore.
Nella consapevolezza che, comunque, ciò non basterà. Questo è, certamente, il nostro necessario contributo. Per disporci poi, con fiducia, nella condizione dell’attesa di quel battesimo di fuoco che sarà Gesù a portare.
Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!
È il fuoco dell’amore che ci porta a trascendere, dopo averle compiute, le misure della giustizia. L’amore infatti non si fonda su strutture, norme e carte dei diritti dell’uomo ma è imprevedibile e ininterrotta invenzione.
Il fuoco dell’amore presuppone la giustizia, certo, ma non si appaga di essa perché la giustizia stabilisce i rapporti tra uomo e uomo nella loro esteriorità. Ciò a cui, invece, ci conduce l’amore – e quella fiamma vitale in cui la vicenda di Gesù ci immerge – è il superamento della nostra estraneità. Solo allora arrivo a sentire me nell’altro e l’altro in me, in una relazione di appartenenza dove i criteri della giustizia, anche se importanti, sono ormai alle nostre spalle. Ancora: il vaglio della giustizia e il fuoco dell’amore.