I cristiani nel mondo non del mondo. Si sente spesso questa frase di matrice evangelica, giovannea. Il termine “mondo” è caratteristico del quarto Vangelo tanto che ricorre 78 volte rispetto alle 14 dei Sinottici, oltre alle 27 del resto del corpus giovanneo. E presenta uno spettro semantico variegato, anche se qui mi limito ai due significati principali. Anzitutto kosmos è l’umanità, l’insieme degli uomini nella storia. Ma è presente anche un’altra accezione, questa negativa, quando per “mondo” si intende “mondanità” e che Giovanni spesso esprime col vocabolo “tenebre”.
Il mondo in questo caso è là dove si manifesta la potenza del male e che alligna in una interiorità che ha perso ogni riferimento a Dio. Così è la lezione dei Sinottici quando Pietro è apostrofato col titolo di Satana perché “non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt 16,23).
È l’atto di supponenza, di orgoglio (il “grande peccato” Sal 19,14), l’abiura alla koinonia con Dio, al “rimanere” in Dio, per riprendere una voce verbale tanto cara a Giovanni. E’ farsi trascinare dalla “voracità della carne, dalla cupidigia degli occhi, dalla ingordigia delle ricchezze e dalla smania di potere” (1Gv2,15-16).
Questo è il mondo che ci è chiesto di respingere, quello che ci asservisce, ci rende supini e servili pronti a patteggiare fino a trescare con quella mondanità che si fa via via sempre più esigente e totalizzante, per cui non c’è più spazio né per Dio né per gli uomini. Tutto il resto isterilisce.
Il simbolo di questo mondo dimentico di Dio è, negli scritti del Nuovo Testamento, Babilonia, la “grande prostituta” (Ap17). Essa è la concretizzazione di un sistema demoniaco, paradigma di una realtà opaca, impermeabile all’Altro e agli altri, con le sue strutture di potenza, i suoi pulpiti di superbia, le peccaminose omertà, le ipocrite connivenze, luogo di violenza e di ingiustizia.
Babilonia, maschera dell’imperialismo romano alla fine del primo secolo, assurge a figura aperta di tanti altri sistemi socio-economici quando essi diventano oggetto di idolatria, deformando il progetto di Dio su di noi.
Questo è il nostro mondo, anche il nostro mondo cosiddetto cristiano, là dove smarrisce l’orizzonte di una speranza altra.
Tuttavia il Vangelo non dice di abbandonare il mondo, ma di stare nel mondo.
Quindi che fare per non essere schiacciati nel tritatutto della omologazione? È l’antico profeta che ci guida con un’espressione tanto densa quanto essenziale: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare, camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6,8). E Paolo, qualche secolo dopo, ai cristiani di Roma: “Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente per poter discernere la volontà di Dio” (Rom12,2)
Non conformismo, dunque, ma metànoia, capacità di discernimento, restando contemporanei all’oggi, senza fuggirne il dramma, senza esserne assorbiti. Senza rifugiarsi sdegnosamente sull’ Aventino in un conservatorismo regressivo, ma facendo i conti con questa realtà, con attenzione critica, con competenza, scrollandoci di dosso le fantasticherie di un tempo che non c’è più. Desiderando di stare sul Tabor, i tre apostoli volevano dimenticare l’umile realtà di un regno così contrario alle loro attese, ma vengono ricondotti al quotidiano.
Il cristiano è colui che con giustizia e nel difficile amore “cammina umilmente con il suo Dio”, non disprezza il mondo, anzi. È uomo e cittadino a pieno titolo.
È colui che “dà a Cesare quello che è di Cesare” in comunione con tutti gli uomini, proprio perché “dà a Dio quello che è di Dio”. Egli agisce come “cittadino degno del Vangelo” (Fil 1,27), in una sana laicità, facendo propri i valori della cultura di cui è parte, le qualità lodevoli che dicono la bellezza della vita e della convivenza umana come a suo tempo Paolo aveva fatto suoi i valori dell’ellenismo: “ Fratelli, tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri.” ( Fil 4,8)
È qui, in questi ideali condivisi, che il cristiano innesta il suo “proprium” che gli deriva dalla fede. E’ quello che deborda, che va oltre ciò che è norma, che eccede la giustizia civile, che resiste al condizionamento dell’ambiente. E’ quello che fa emergere con coraggio la “differenza cristiana”, quello che è “scandalo per i Giudei e pazzia per i Greci”(ICor). Ma non nel segno di un rigorismo etico, non nell’eccentricità con quel fanatismo di chi si sente investito dell’incarico di salvare il mondo. Ma nella quotidiana fatica della verità, seguendo lo stile di Cristo. E ciò richiede ascolto, disciplina, obbedienza al Vangelo. E’ ciò che va contro il facile spontaneismo deresponsabilizzante, senza battaglie, senza volontà di conquista e riconquista, di potere, di visibilità.
Nel mondo, dunque. Non in una cittadella presidiata, non in una barca isolata, ma dentro il mare. Come Pietro che vi si tuffa quando sulle riva vede il Risorto ( Gv21,7). Perché chi ha incontrato il Risorto e vive per Lui, sta nel mondo, lo abita e lo onora come luogo teologico.
Questo è il nostro kairos, l’occasione propizia che ci è donata per vivere in pienezza nel mondo da cristiani.