Per fare giustizia occorre fare memoria, fare memoria contro l’indifferenza: richiama l’impegno a ricordare, a tessere l’intreccio delle esperienze umane nel tempo, a tenere presente. Tenere presente chiede il fare memoria, chiede di rivisitare e reincontrare, di serbare e riscattare, di ripensare e rendere giustizia. Ed anche, e forse soprattutto, di riprendere i sogni interrotti, le testimonianze e le relazioni, i desideri e le attese di vita, quelle semplici, quotidiane, familiari. Di riconoscerne dignità.
“L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza. L’opposto dell’educazione non è l’ignoranza, ma l’indifferenza. L’opposto dell’arte non è la bruttezza, ma l’indifferenza. L’opposto della giustizia non è l’ingiustizia, ma l’indifferenza. L’opposto della pace non è la guerra, ma l’indifferenza alla guerra. L’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte. Fare memoria combatte l’indifferenza.” Così rifletteva Elie Weisel nel 1999 in un incontro a Washington.[1]
Per tenere presente occorre, insieme, curare l’avvenire, aprire il futuro, sperare nella vita nuova
Ma per fare memoria e tenere presente occorre, insieme, curare l’avvenire, aprire il futuro, sperare nella vita nuova. Occorre aver cura della nascita, di altro, di un oltre da incontrare. L’indifferenza è incuria della nascita, della possibilità della vita nuova.
Quando nelle relazioni non si coltiva la capacità generativa – quella che si rivela preziosa soprattutto quando la relazione è ferita, quando vive la sconfitta e il fallimento, e la fiducia pare finire – allora l’umano inardisce e diviene solo funzione ed esercizio di forza. Tradita, lì, la domanda di giustizia. Cosa può fare la differenza impedendo cinismo, ristagno, rancore, moventi di offesa, esclusione, disequità, oppressione? Fa la differenza cercare di essere operatori di giustizia: l’osare l’incontro, il provarlo di nuovo, con una certa generosità e, insieme, proponendolo come possibilità esigente da ricostruire. Nella verità, nel riconoscimento delle sofferenze entrate in scena, nella riattivazione di attese e di responsabilità. Nel predisporre contesti di presenza e prossimità, per dono potremmo dire più che di perdono.
Che è il contrario del diffuso non vedersi e non essere visti in ciò che si vive, che è come sottrarsi allo sguardo su di sé ed al riconoscimento di sé nella condizione dell’altro. Come scostare lo sguardo, andando oltre senza riguardo per l’altro. Sono, queste, due dimensioni dello stesso movimento: che conduce alla perdita di sé, perduto l’incontro; ed alla perdita della vita (in) comune, perduto il gusto del vivere insieme: e ciò apre lo psazio all’ingiustizia, alla separazione indifferente.
Non sentire l’altro non fa più attendere, non fa trovare e ritrovare dopo gli smarrimenti
“L’indifferenza è il peso morto della storia (…) è la materia inerte (…) opera passivamente, ma opera” scrive un giovanissimo Antonio Gramsci su La città futura.[2] Opera nella profondità delle interiorità delle persone “come malattia morale che può essere anche una malattia mortale”. Liliana Segre in questi anni lo ha spesso ripetuto: “l’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. L’indifferente è complice”.[3] Senza sentire, senza moti di rimpianto, di indignazione, di speranza o di pietà. Coscienza vuota: l’attrattiva del mondo, del tempo, e del vivere, dell’altro sono perdute.[4]
L’indifferenza congela il tempo: non sentire l’altro, e non (voler) sentire altro di sé, non fa più attendere, non fa trovare e ritrovare dopo gli smarrimenti, non fa scoprire la possibilità di cammini nuovi. I momenti, i giorni diventano grigi, come una palude: non c’è evento se non cogli ciò che geme o che freme nei corpi, nelle persone, in te stesso. Come si può essere mossi a salvare l’umano dalla disumanizzazione, a essere giusti, a fare nuove le relazioni?
Ricordare, fare presente, rendere immagine e dignità, ricostruire memorie contro l’oblio permette di resistere e di respirare nella dominante cultura dell’indifferenza, del “modello tecnologico”. Ricoeur ne parlava in questi termini: “ora, la nostra cultura, nella misura in cui si conforma a un modello tecnologico, emana oblio. L’utente dell’attrezzo, della macchina, non ha memoria: lo strumento si esaurisce nella sua funzione attuale, abolisce il proprio passato nell’uso che ne fa nel presente. Il simbolo, al contrario, ha memoria, è memoria; riprende altri simboli più antichi che integra nel segno presente”.[5]
Occorre non cedere all’oblio con il pretesto di farsi comprendere, di restare connessi, di restare nei giochi con gli altri, senza grande impegno e coinvolgimento. Occorre, piuttosto, secondo il filosofo francese, che l’uomo d’oggi “stringa un nuovo patto tra tecnica e poesia, e accetti di essere ‘progressista’ in politica ‘arcaico’ in poesia”.[6]
Qualcuno chiama il nostro tempo “gli anni della morte del prossimo”
Qualcuno sta chiamando questi “gli anni della morte del prossimo”, certo sono anni di una ostentazione diffusa di autosufficienza e di autoreferenzialità, a volte cinica e irresponsabile. Nella quale anche la libertà finisce estenuata e persa.
C’è una annotazione semplice e profonda della Laudato si’ (49): “tanti professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere [potremmo aggiungere: università, centri di ricerca, luoghi di rappresentanza, di governo e progettazione sociale nda.] sono ubicati lontano (…) dagli esclusi, in aree urbane senza contatto diretto con i loro problemi.
Vivono e riflettono a partire dalle comodità di (…) una qualità della vita che non sono alla portata della maggior parte della popolazione mondiale. Questa mancanza di contatto fisico e di incontro (…) aiuta a cauterizzare la coscienza e a ignorare parte della realtà, in analisi parziali”. Culture specialistiche, ricerca universitaria, competenze ed abilità perdono pertinenza e divengono indifferenti, autosufficienti ed autoreferenziali. Vedono (magari analizzano e giudicano) e passano oltre.
Da questo non nasce più la lotta e il confronto con il male, non origina più il desiderio e la ricerca del bene, e neppure l’amore per il reale. L’indifferenza promuove continuamente giustificazioni e disimpegno morale, mette tra parentesi le nostre ombre. Non ci sentiamo coinvolti, non innocenti e non neutrali e, quindi, ci pensiamo fuori dal lavoro della giustizia.
Possiamo sentire il richiamo: “sentinella quanto resta della notte?” (Isaia 21, 11)
Solo quando osiamo l’incontro, lo sguardo, scopriamo che possiamo reggere l’ombra, ed anche la nostra piccolezza, le nostre contraddizioni. Che forse siamo maturi per la speranza, che possiamo guardare la notte per come si presenta. Possiamo sentire il richiamo: “sentinella quanto resta della notte?” (Isaia 21, 11) e farci monaci custodi della speranza del mondo, donne e uomini che serbano nel profondo l’attesa dell’alba, e un po’ di luce, che cercano il nuovo, ciò che nasce, che riapre il tempo.
Leggi anche:
Cavallini
[1] E. Wiesel, Discorso alla Casa Bianca, Washington, 12 aprile 1999
[2] A. Gramsci, La città futura, febbraio 2017
[3] L. Segre, Il male dell’indifferenza, www.raicultura.it, 2019/01
[4] F. Rella, Figure del male, Feltrinelli, Milano, 2002
[5] P. Ricoeur, “Liturgie, segno dei tempi e azione poetica”, in P. Ricoeur, La logica di Gesù. Testi scelti, Qiqajon, Magnago (Bi), 2009, pp 83-91
[6] Ibidem, p 86