Tema fortemente presente già nella riflessione del grande sociologo tedesco Max Weber dopo il primo conflitto mondiale. Sua la distinzione tra l’etica del politico, che è etica della responsabilità (la politica non è tecnica e neppure idealismo; il politico si fa carico delle conseguenze della sua azione) e l’etica della convinzione, che è per la morale personale (etica dei principi; la persona agisce così perché è giusto, indipendentemente dalle conseguenze che dovrà sopportare). Anche a Weber si deve la visione di una politica come dedizione ad una causa.
Vincenzo Bonandrini, al quale abbiamo fatto riferimento più volte nel trentesimo della morte, sociologo, attento conoscitore di Weber, matura una riflessione e una pratica della responsabilità che lo avvicina più a Dietrich Bonhoeffer[1]. La responsabilità investe la totalità della persona, della vita, non solo aspetti particolari: è un modo d’essere complessivo.
Essere per gli altri non è proprio solo dei genitori o dei politici ma di tutti. Ed è questa l’unica “causa” vera cui destinare l’azione politica: dare la vita per l’altro, perché egli sia, viva, sia libero e si esprima. “Che ne è di tuo fratello?”. Non sostituirsi agli altri nelle decisioni in politica: essere per loro, lavorare per dare forma alla vita comune, alle responsabilità condivise, all’operare insieme, al consenso.
Mai la politica deve tradurre una responsabilità verso una causa astratta: sempre e solo verso persone concrete, le ultime. Con Bonhoeffer: vi è un criterio, un fondamento preciso che è la vita di Gesù Cristo[1].
La responsabilità è un modo d’essere nella storia, e viene entro le trame di un’etica e di una teologia dell’incarnazione nelle viscere della storia, nel destino del proprio popolo, nelle sofferenze delle persone. E un umile chinarsi sulla realtà, in ascolto rispettoso dell’origine e della finalità delle cose. Chinarsi umile, in ascolto, della realtà personale che, dopo Cristo, è svelata nel suo essere “misterioso impasto di divino e di umano”.
La realtà umana si presenta sempre, in noi anzitutto, anche nei tratti della miseria, del limite, dell’ambiguità. Certamente non è possibile nessuna illusione al riguardo. “Io faccio nuove tutte le cose — dice il Signore”, ed è nelle mani del Signore che van poste parole ed opere umane, perché siano di pace e giustizia. Perché siano opere di riconciliazione: una delle espressioni ricorrenti negli interventi di Vincenzo. L’esistenza umana va spesa come esperienza di riconciliazione, la riconciliazione operata da Cristo perché si nasca a vita nuova.
Questa consapevolezza che l’orizzonte del limite, della parzialità, dell’ambiguità è proprio dell’uomo, che ogni bene, ogni opera umana porta con sé anche una imperfezione e una colpa, fa maturare profonde e ulteriori dimensioni della responsabilità.
Responsabilità (fare opere e servizi, decidere e governare, sostenere percorsi formativi…) è anche e necessariamente “farsi carico”, prendere su di sé le colpe dell’altro, e l’altro in quanto anche colpevole. Prendere insieme, la colpa che ogni azione (dell’altro ma anche nostra) porta in sé. Via di espiazione, via di conversione.
Forse si può dire meglio: via di addolcimento, di intenerimento per le durezze e le freddezze, a volte impietose, delle relazioni e dei cuori, delle logiche funzionali e dei rapporti di scambio, degli esercizi professionali e delle applicazioni di normative.
Non c’è azione, certo nessuna azione politica o sociale, che sia totale o innocente. Non di rado in Vincenzo abbiamo percepito vissuta l’intuizione (propria di alcuni grandi spiriti) che la forma più alta di azione, quella che avvicina a Cristo, è la sofferenza.
Il primo passo della riconciliazione, l’affidarsi al disegno di Dio chiede anzitutto di
Comprendere, capire e sentire Dio, gli altri, le cose, gli oggetti. Prima e durante ogni nostro operare sarà, però, importante capire. Capire le persone, gli accadimenti e le cose. Capire i significati profondi della diversità-alterità con laquale intendiamo costruire rapporti riconciliati. Fanno entrare in “rapporto con “, aprono a una relazione che conosce lunghi momenti di ascolto, fino alle sfumature più sottili e impercettìbili. Capire e percepire non si conciliano con l’attivismo, la rumorosità dei messaggi, la possessività più esplicita o più nascosta. Detto in altri termini è un “giù le mani, il cuore e la mente dalle cose e dal nostro prossimo ” per aprirsi alla contemplazione che riconosce. L’astinenza non è imposta, comporta tempi lunghi di apprendimento e di analisi delle motivazioni che ci attivano”[2].
L’esperienza delle differenze, dell’alterità, può essere, dunque, occasione di germinazione e fioritura del senso.
Occorre viverlo nella prospettiva della carità perché il rispetto e la convinzione dell’incerto, dell’originalità dell’altro, permettono di fare crescere insieme unione e differenziazione.
“Quando siamo mossi dal capire e dall’ascolto che sente, non diventa nostro quanto tocchiamo, vediamo o leggiamo. Non perde la propria identità per confermare la nostra. Cose e persone rimangono con la loro specificità, noi lepossediamo contemplare e rispettare nella loro diversità-alterità. Se non le possediamo, rimangono se stesse, non si sentono prese in modi minacciosi o suadenti, non conoscono avversari vogliosi di conquiste, possono farsi amiche.
Si creano le condizioni perché tra noi e gli altri, tra noi e le cose, nascano relazioni di reciprocità non temuta perché non segnata da soppressioni. Quando è così la diversità-alterità è meno fonte di separatezze ed estraneità.
Può esservi alterità con istanze unitive, domande di rapporto, attese di dialogo, possibilità collaborative aperte allareciprocità. L’alterità può esserci più amica, fraterna, vicina e meno nemica, avversa o lontana.
La diversità può essere più compositiva che oppositiva. Se così, diversità e alterità colmano vuoti, assenze, parzialità. Si possono vivere come doni preziosi che fondano gratitudine e solidarietà”[3].
Non c’è mistero in un mondo omogeneo. Vivere l’esperienza della differenza nella prospettiva della carità permette di scoprire la struttura della comunità.
La carità ha la stessa struttura della fede: “unione sul modo della non-identità”, legame con l’inafferrabile, rapporto con l’Alterità radicale. Così si rifletteva con Michel de Certeau[4]
Dunque! Capire noi stessi, gli altri e le cose può portare alla meravigliosa scoperta di sentire, contemplare e conoscere la manifestazione di Dio. Un intenso capire comprende e contempla, vive amica la diversità, si apre all’attesa, sente lapresenza di una alterità non vista, può cogliere la presenza di Dio nelle creature del tempo[5].
Mai senza l’altro. “Io non sono niente senza il Padre mio, e non sono niente senza di voi, fratelli”.
Siamo giunti ad un orizzonte che supera quello della solidarietà e della condivisione: il cristianesimo non è (solo né tanto) una forma di umanesimo. L’orizzonte è quello della pietà, della misericordia: noi siamo “servi inutili” e in questo spirito assumiamo responsabilità civili e professionali. E l’orizzonte scrutato e percorso da Gianfranco Sabbadin. Orizzonte ben più in là di quello dei diritti, anzi suo fondamento. Una società che si legge tutta in termini di diritti “è una società che si sente già redenta”. Essa pensa di non avere bisogno delle dimensioni della promessa e del perdono.
[1] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa – Lettere e scritti dal carcere, ed. Paoline, 1988.
[2] V. Bonandrini, Cercar Dio… op cit., p. 16.
[3] ibidem.
[4] M. De Certeau, Mai senza Dio, Ed. Qiqajon, 1993
[5] V. Bonandrini, Formarsi alla solidarietà…, op. cit., p. 17.