Da qualche anno provo a sostenere l’impegno di chi nella Chiesa si occupa dei migranti. Azioni e riflessioni che ci aiutano a riconoscere aspetti importanti della nostra società e anche delle nostre comunità cristiane. Fragilità e incoerenze. Ma anche opportunità e bellezza.
E’ un crinale, quello delle migrazioni, che ci porta da un lato ad attraversare frontiere (o “spingerci al largo” come suggerisce questo blog), e dall’altra a riscoprire una pluralità e una ricchezza che già dovrebbe caratterizzarci, e trasformarci. Segno dei tempi. Opera dello Spirito.
Un’ulteriore occasione preziosa è stata lo scorso 26 maggio la proiezione di ONE DAY ONE DAY, docufilm di Olmo Parenti. Si ripeterà il 6 giugno.
Mi ha colpito anzitutto la partecipazione: 160 persone in una sera estiva non è scontato. E la gioia di ritrovare molti amici giovani disponibili a lasciarsi interrogare. Alcuni li vedo anche in Chiesa.
Sono giovani anche i promotori di questo film che per mesi è stato “vietato ai maggiori di 18 anni”. Due sono presenti in sala per introdurci alla visione, insieme al referente di WILL Media.
E’ stato pubblicizzato come un film sul caporalato. Alla fine, però, dopo i 78 minuti di proiezione, resta la sensazione di aver vissuto un incontro con alcune persone reali, ciascuno con il proprio nome, giovani pure loro, di origine straniera, che vivono e lavorano in Italia.
Si capisce – e ne è un merito! – che il racconto è parziale. Non pretende essere esaustivo. Offre uno sguardo che ci fa cogliere “qualcosa” dell’altro, che è ritenuto importante. Non compaiono ad esempio i datori di lavoro. La questione delle condizioni lavorative resta sullo sfondo. Non compaiono le donne – poche – che vivono a Borgo Mezzanone, in Puglia. Non compaiono bambini. Nemmeno si fa una denuncia esplicita delle condizioni di vita in questo luogo che è in continua crescita e carente di alcuni servizi basilari.
Poco più di un’ora di visione, scatena da subito una catena di domande e di dialoghi. Tutto segno del successo di questa azione cinematografica, ma soprattutto – ritengo – della testimonianza di chi questo racconto l’ha costruito e proposto. Il dibattito è interessante almeno quanto il film.
Esco di sala dopo più di tre ore portando con me frammenti delle espressioni ascoltate in presa diretta dai giovani immigrati e che risuonano come provocazione
Sono contento di questo Paese. Grato per avermi salvato in mare. Oggi darei la vita per l’Italia, al 100%. 5 anni dormendo in un auto parcheggiata è meglio che stare per strada o dormire nelle stazioni. Non sarà sempre così, penso positivo e credo che le cose miglioreranno anche per me. Lavoro e guardo avanti.
Ma il racconto del giovane si intreccia poi con quello di un uomo divenuto anziano in questa situazione di vita, capace ancora a sperare, ma ormai con meno forze e problemi di vista. La vita del borgo è fatta anche di contatti con le famiglie di origine – a cui non si raccontano i problemi e le difficoltà -, momenti di festa e tanta quotidianità. Nel ripetersi di gesti come il lavarsi e l’ascoltarsi che raccontano la lotta quotidiana per prendersi cura dell’umanità, propria e degli altri, in un contesto che potrebbe essere semplicemente umiliante. E allora chi è stato testimone di umanità per un anno ce lo racconta come qualcosa di prezioso, seme di una umanità in cui al nostro sguardo si riflette un po’ di Vangelo.
Non viene nascosto il dramma umano di queste persone che si ritrovano a vivere e lavorare ai margini della società. In questo caso anche fisicamente ai margini, in un borghi periferici, come quello Mezzanone, in cui trovano casa alcuni dei 500.000 stranieri senza documenti in Italia.
Storie ben raccontate che nella proiezione incrociano il nostro bisogno di “attivarci”, di capire cosa possiamo fare noi per cambiare le cose. E si coglie un po’ nel dibattito lo stridore tra noi in sala che, reagendo alla proiezione, proviamo a capire e vorremmo intuire come si può cambiare, rispetto invece alla narrazione di chi si è dato un anno intero per “stare”. Per conoscere prima di raccontare.
E’ forse per questo che invece di un servizio televisivo di denuncia, loro sono stati piuttosto capaci di trarne un racconto positivo, anche pieno di luce e di speranze.
La complessità viene rispettata sia dal racconto, che dal dibattito in sala. Si evita di suggerire soluzioni semplicistiche, di individuare un unico responsabile. Si descrive un mondo che è parte del nostro: la raccolta delle verdure, che avviene anche in questo modo in Italia, è fatta anche della storia di chi arriva con il desiderio di lavorare. E lo sta facendo. Desiderando una condizione di vita migliore. Non alimentando il terrorismo o generando insicurezza, ma nella maggior parte dei casi sperando in un po’ più di umanità e di dignità, che dovremmo auspicarci tutti. E che dipenderà sempre anche dalla coscienza collettiva e da quanto – fatto emergere dall’ombra dell’indifferenza e delle periferie – sarà motivo di politiche di migliore gestione del fenomeno migratorio e di maggior controllo sul mondo del lavoro.
Nel film è esplicita e ripetuta la questione di come l’assenza di documenti crea davvero una zona d’ombra e di mancanza di diritti, che chiude molte forme di un riscatto sociale (l’affitto, il contratto, la possibilità di risparmio legata ad una post pay… ) che potrebbero conseguire all’effettivo lavoro realizzato per anni, in attesa di una sanatoria che probabilmente ancora una volta non li coinvolgerà.
E l’unica denuncia esplicita. L’intuizione che solo da lì può nascere un percorso di svolta reale per la maggior parte di queste persone, delle quali beneficiamo il lavoro ma di cui fa comodo non riconoscere i diritti.
Sono discorsi che anche grazie ad un film risuonano nelle nostre chiese quando chiediamo sinceri che “venga il tuo Regno”.
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